Lo sciame minchione - TheCio

Lo sciame minchione

Anche oggi fa un freddo cane. Sento il gelo conficcarsi dentro al mio cappuccio, arrivarmi fino a dietro alla nuca e poi scendermi lungo la schiena. Quando soffio sulle mie mani per scaldarle vedo la condensa prendere forma e salire fino ai portici. È un’altra gelida mattinata di dicembre, una come tutte le altre, di quelle che sfuggono veloci come il vento. La gente mi guarda in modo strano mentre cammina per Torino. Quasi tutti portano dei lunghi cappotti neri, alcuni sprovveduti hanno dimenticato a casa i guanti e camminano con le mani in tasca e le spalle curve. Nessuno ha tempo di fermarsi, tutti hanno fretta di comprare gli ultimi regali di Natale e non hanno nessuna voglia di incrociare il mio sguardo, come se potessi far loro del male, come se io fossi in qualche modo pericoloso. Osservo le persone e mi sembrano uno sciame minchione di divoratori di cose, che fanno a gara a chi arriva primo per aggiudicarsi l’ultimo televisore di chissà quanti pollici e con chissà che risoluzione avanguardistica; che corrono per agguantare avidamente l’ultima macchinetta del caffè di nuova generazione o per afferrare con le loro mani tentacolari l’ultimo best seller da cinquecentoottantatre pagine; che guardano le cose immobili dietro il vetro trasparente di una vetrina, con il loro prezzo scritto sopra un cartellino di cartone giallo ben appiccicato sopra; che prima sbavano e subito dopo comperano, comperano all’istante, comperano tutto ciò che c’è da comperare, costi quel costi, e portano a casa fior di pacchetti dalle loro trepidanti signore o dai loro figlioletti ancor più minchioni, che aspettano con ansia il giorno di poter aprire quei pacchetti scintillanti, fingendo di non sapere che cosa contengono, invidiosi dei loro compagni di scuola perché hanno già ricevuto una marea di cose per il loro compleanno. E tutto perché lo ha detto la televisione nei suoi spot prima e dopo i cartoni animati.
Nessuno, neanche uno fra i membri a vita di questo numeroso sciame, si è ancora preoccupato di chiedermi come sto. Nemmeno oggi, che fa un freddo cane. Questa mattina, però, verso le dodici e un quarto, una ragazzina bruna con un impermeabile giallo canarino si è fermata a chiedermi se avevo visto la sua mamma, mentre io mi facevo beatamente gli affari miei. Era carina e sembrava molto timida, mi guardava facendosi scappare qualche sorriso ogni tanto e non pareva per niente preoccupata di essersi smarrita. Non sapevo dove fosse sua madre, eppure per qualche istante ho quasi voluto fingere di saperlo: – Hai provato a guardare dentro quel negozio? – le ho sussurrato, per non spaventarla con la mia voce roca. Ma nemmeno il tempo di avere una risposta, che la donna me la stava già portando via, strattonandola e tirandola per un braccio. L’ho guardata inciampare mentre veniva tirata via e le ho sorriso, anche se lei era già scomparsa fra l’indiavolata folla torinese.
Ci ho fatto l’abitudine alle persone, ai loro pregiudizi e alla loro paura. Anche io ho avuto paura. Oggi ne ho meno, forse perché sono troppo vecchio, e aver paura significherebbe aver paura della morte, perché infondo non ho più nient’altro da temere. Ma ne ho avuta tanta, in passato. Ho avuto paura di innamorarmi, poi ho avuto paura che l’amore svanisse per sempre. Ho avuto paura di sposarmi, e infatti non mi sono mai sposato. Qualche anno dopo ho avuto paura di invecchiare solo. Ho sempre avuto paura del mare, specialmente da bambino, quando mio fratello mi gettava giù dal materassino e fingeva di andarsene e mi abbandonava al largo. Credo con certezza di poter attribuire a lui il fatto che io non abbia mai voluto saperne di imparare a nuotare. Ho sempre avuto paura anche dei treni, dei ritardi, di sbagliare binario o di addormentarmi e ritrovarmi da tutt’altra parte rispetto alla mia destinazione. Per non dimenticare i ragni, inutili animaletti bastardi a otto zampe. Un giorno giuro di averne visto uno con dodici, magari una mutazione o una diavoleria arrivata qui da un carico di frutta proveniente dal Brasile. Il fatto è che tutti abbiamo paura. Forse è colpa dei giornali, dell’allarmismo della televisione o del terrorismo, o forse è qualcosa di congenito nella natura umana, un sentimento di timore verso tutto ciò che non conosciamo, verso tutto ciò che ci è maledettamente estraneo.
Non so se si possa o meno condannare la paura. Me lo sono chiesto spesso, ma col tempo ho sepolto la rabbia sotto una buona dose di umiltà, forse una delle poche qualità che sono riuscito a conservare e a proteggere da queste gelide mattinate. Niente è più importante quando sei costretto a sopravvivere ogni giorno, quando la tua vita si riduce al lancio di un dado di un’invisibile mano provvidenziale. E così ho cominciato ad avere rispetto anche per la paura, fino ad arrivare ad invidiare chi è capace di provarne un po’, perché nella mia vita non c’è posto per la paura, come non c’è nemmeno più posto per i sogni. L’unica cosa che ancora oggi riesco a desiderare ogni gelida e noiosa mattina della mia vita è poter parlare con qualcuno, avere la possibilità di scambiare due parole con un estraneo, di poter dare la mia opinione su qualcosa, sulla politica, sulla religione, sul dannato rumore che fanno i tram a Torino quando sfrecciano per via Po all’ora di punta, perché un uomo senza opinioni non è più un uomo e soprattutto non è più vivo. È solo un corpo immobile e inutile, una massa grassa, un insieme di organi viscidi, appiccicosi e rivoltanti. È uno sguardo vuoto, è una bocca chiusa. È l’espressione del nulla cosmico. Ed è proprio così che mi sento, da ormai tanto tempo. Come carne da macello, e nulla più.
Alcuni pensano la stessa cosa della fede. Un uomo senza fede è perduto, dicono. Per quanto mi riguarda, non mi sono mai posto il problema. Dio non ha mai avuto troppo tempo da dedicarmi, io in compenso non mi sono mai disturbato ad andare a fargli visita, anche se davanti a casa mia vedo ogni mattina una bellissima chiesa di cui non so nemmeno il nome. Mi limito, ogni maledetta noiosa domenica mattina, a contare le persone che vi entrano, per lo più vecchi e uomini di mezz’età. Pochi giovani, qualche famiglia. E tanti zingari, lì davanti, a chiedere l’elemosina, a supplicare i passanti dicendo loro di trovarsi in mezzo ad una strada, abbandonati dal mondo e senza lavoro, figurarsi di trovarne uno. Ma alla maggior parte non importa, la gente ha fretta, per lo più fretta di andare al lavoro o più semplicemente di evitare il mondo, di percorrere la loro direzione volta verso l’individualismo più sfrenato. Ma in questi anni passati ad osservare la gente, non ho dubbi quando dico che per lo più le persone hanno fretta di comprare, non importa cosa, non importa quanto. La gente si sente ricca in base a quante cose possiede. Le cose, gli oggetti, la roba (che per lo più è robaccia) sono la ricchezza del nuovo millennio.

Ogni tanto, quando vedo passare le scolaresche, lunghe file interminabili di bambini con lo zainetto sulle spalle, mi viene in mente che quando ero al liceo la scuola ci portò in gita a Padova. Un giorno andammo a visitare un celebre caffè di cui oggi non ricordo il nome. Io odiavo i bar e non ne volli sapere di entrare, preferii starmene fuori. Accanto a me, c’era un violinista che doveva esser proprio matto, con un cappotto lungo e una folta barba grigia come la cenere, che si toccava e si grattava fino allo sfinimento. Non appena aveva iniziato a suonare io ne ero rimasto incantato. Il suo rude aspetto sembrava non c’entrare proprio nulla con l’armonia delle note che creava con il suo strumento, e mentre roteava gli occhi e sobbalzava sul suo seggiolino malandato, io avevo deciso di mettere una bella banconota da cinquemila Lire dentro il suo cappello, appositamente messo in terra per raccogliere qualche spicciolo. Lui aveva guardato in basso, con gli occhi lo avevo visto seguire il movimento della mia mano, ma non aveva smesso di suonare. Non bisogna mai smettere, neanche se ti vedi appoggiare una banconota da dieci. Magari con un pezzo da venti si può prendere fiato per qualche secondo. Finita l’ultima nota, mi guardò intensamente e si sforzo di ricordare come si fa un sorriso. Ne usci una smorfia inquietante, ma colma di sincero affetto. Quel cappello era stato vuoto tutta la giornata. Mi guardò a lungo, poi mi diede un bacio sulla fronte e infine un abbraccio. Se ne tornò a suonare come se io non fossi mai esistito, ma io restai ancora un po’, per sentire qualche altra canzone, ma soprattutto restai perché quel vecchio mi aveva fatto sentire una persona meravigliosa.
Gli altri ragazzi intanto uscivano in massa dal caffè. Alcuni di loro raccontavano che i camerieri servivano ai clienti con guanti bianchi di seta. Sembravano tutti eccitati dall’eleganza di quel posto, talmente tanto non si curavano minimamente di ascoltare il vecchio violinista, che intanto continuava a suonare, a uccidersi i polpastrelli facendoli viaggiare veloci sulle quattro corde arrugginite. I professori fecero un fischio per radunarci davanti al pullman e fare la conta. Guardai un’ultima volta quel musicista matto col cappotto, pensai che sarebbe andato avanti a suonare tutto il giorno solo per se stesso. Lo salutai con la mano e corsi verso il pullman. Mentre raggiungevo la fila degli altri bambini sentii anche dire che il prezzo di un caffè schiumato freddo con panna e menta era di settemila Lire.
– Ma che caffè! – avevano detto tutti in coro, sfoggiando sorrisi impregnati di indifferenza, gli stessi sorrisi che oggi rivedo nei volti di quello sciame minchione che mi passa davanti, ogni gelida mattinata della mia interminabile vita.

Lorenzo Martinotti

Foto di Margherita Simionati

 

A cura di Lorenzo Martinotti

Musicista - scrittore - studente di lettere. Il resto conta poco.

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