I mostri della notte #1: Ansia - TheCio

I mostri della notte #1: Ansia

È notte fonda. Piove fuori. Il letto non era mai sembrato così inospitale. Le coperte pesano. Giovanni suda: freddo e caldo si alternano. Il cuore preme sul petto. Forte. Continuamente. La bocca asciutta.

Continua a piovere. Là fuori non si ferma. Non è incessante, nessun rumore a parte il tamburellare randomico delle gocce sulla finestra a destra. Sul suo comodino un’ora: le tre e cinquantratre del mattino. Alle nove avrebbe avuto il colloquio che preparava da una settimana. Non si sentiva pronto. Si alza e prova a farsi una doccia.

“Come ti senti Giovanni?”

“Non so, spero che lavandomi un attimo questo passi.”

Inizia a sfregare forte la pelle. Si lava I capelli una volta, si lava I capelli due volte. Sente la cute sudare mentre si passa lo shampoo sui capelli. Non può accendere lo stereo o sveglierebbe tutto l’appartamento.

“Giovanni, cosa senti?”

“Non so come spiegarlo. Da domani dipende tutto. Non riuscirei ad andare davanti a Maggie e ai miei genitori portando questo ennesimo fallimento.”

“Maggie?”

“La mia ragazza.”

“Ed è più importante della tua famiglia.”

Continua a lavarsi. Esce dalla doccia e ha freddo. Non può accendere il phon. Allora prende un asciugamano e comincia a passarselo addosso più volte, sperando di togliersi di dosso tutta l’umidità rimasta. Guarda il panno e vede i suoi capelli, piccole vittime inermi staccate dal loro gregge.

“Dottore?”

“Dimmi.”

“Non è più importante della mia famiglia, solo che lei sa, con lei posso dimostrarmi per quello che sono, un debole, un fallito.”

“E la tua famiglia questo non lo acceterebbe?”

Si riveste. Si mette le mutande, i calzini, i pantaloni della tuta ed una felpa.

“Non hai un pigiama, Giovanni?”

“No, mi vesto sempre così per andare a dormire.”

“Sei uno scappato di casa?”

“No, ma, cioè un pigiama… Mi farebbe sentire… vecchio?”

“Questo me lo devi dire tu. Sei abbastanza giovane per vestirti come se avessi diciotto anni e fosse il primo anno che vivi fuori casa, ma sei anche abbastanza vecchio per definirti fallito, a quanto pare.”

Va in cucina, apre il frigorifero. Una grande desolazione. La luce è mezza smorta e ogni tanto si spegne. Giovanni deve assestargli un paio di calci per farla ripartire. In alto a destra lo guarda triste e depresso un avanzo della cena della sera stessa. Lo prende, lo mette nel microonde e lo scalda.

“Ma non mi avevi detto di essere fissato con il cibo e la forma fisica?”

“Non so cosa fare. Non riesco a smettere di pensare a domani.”

Mangia, sentendosi boccone dopo boccone sempre più pesante. Stopposo e arido, il cibo si fa strada dentro di lui, solo per provocargli una lieve nausea. FInito il piatto lo pone sulla pila che lo osserva da almeno una settimana. Ma domani ha il colloquio e questa settimana non ha avuto tempo. Il tempo passa e lui è ancora sveglio.

Rientra in camera sua e vede un numero. Il numero cinque. Gli sorride beffardo, lampeggiando di un blu malato. Una figura nell’angolo si fa strada nella stanza. Giovanni si siede sul letto e la accoglie con lo sguardo e le spalle rassegnate. Si mette vicino a lui.

“Perchè la stai accogliendo?”

“Perchè è parte di me. Alla fine questo sono io.”

Giovanni si gira. Il busto è piccolo. Quattro lunghi arti, di grandezza simile ma non uguale, partono dai quattro angoli di quello che ad una seconda occhiata più che un busto sembra il corpo intero. Due grandi occhi, posizionati in modo simmetrico, squadrano Giovanni. Sono cerchiati di rosso, occhiaie nere e profonde. La bocca occupa il resto. Circolare, più linee di denti fanno capolino. Ogni cerchio si muove in modo asincrono.

L’essere si muove. Si posiziona davanti a Giovanni. I due arti inferiori si allungano e gli permettono di di arrivare all’altezza della faccia di Giovanni. Gli arti posteriori si muovono nell’empia caricatura di un abbraccio di amore. I denti, fermi, pungono il viso. L’essere si stacca. Piccole gocce di sangue iniziano a cadere, come la pioggia, sulla bocca malfatta. L’essere si è posizionato esattamente dove esse cadono, I quattro arti raccolti intorno a sè.

“Perchè glielo lasci fare?”

“Perchè me lo merito. Domani fallirò ancora una volta. Mi merito di soffrire. Di non riuscire neanche questa volta. Cosa farò, domani pomeriggio? Come chiamerò Margherita? Come chiamerò mamma e papà? Con che coraggio racconterò loro che non ho ancora trovato un lavoro? Come farò a far venire Margherita a vivere con me se neanche riesco a mantenere me stesso?”

“E quindi, ha senso che tu, ora, alle cinque del mattino, quando fra quattro ore hai un colloquio importante sei qui, nel buio della tua camera da letto, a farti mettere sotto da un mostriciattolo insulso?”

Giovanni poggia lo sguardo sull’esserino. Emette un sibilo a metà fra un palloncino sgonfio e un serpente di campagna. Lo osserva meglio. È piccolo e sembra anche pacifico, ora che è sazio. Guarda la sua grandezza, più minuta di quanto si aspettasse. Guarda I suoi piedi. Alza il piede e glielo posiziona sopra.

“Vai.”

Inizia a calpestarlo. Non riesce a smettere. Gli fa male il piede destro e allora inizia con il sinistro. Un colpo dopo l’altro, forte, sempre più forte. Il corpo emette schizzi di materia violacea per la stanza, ma questo non ferma Giovanni nella sua opera di distruzione. Inizia ad urlare, a saltargli sopra con entrambi i piedi.

La luce del giorno arriva dalla finestra. Un piccolo raggio di sole fa capolino attraverso le tende. Illumina il suo corpo, mostrandogli la sua figura cosparsa di quella sostanza.

Il Dottor Z schiocca le dita.

“Svegliati.”

Giovanni si guarda intorno, gli scaffali familiari pieni di libri dello studio del Dottor Z lo accolgono.

“Dottore, io, non so, mi sento più leggero.”

“Frena Giovanni, abbiamo appena iniziato.”

 

A cura di decio

Ho studiato economia, alla ricerca della strada della mia vita. Nel frattempo scrivo, leggo, ascolto musica e gioco ai videogiochi.

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