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FuoriSede – Omicidio in Corso Regina, 110

Fuorisede è nata per alleggerirmi il cervello, per immaginare cose che sono quasi accadute e per dire un sacco di stronzate.
Se volete anche voi fare queste tre cose, siete nel posto giusto.



Omicidio in Corso Regina, 110.

Il leggero scroscio della pioggia, l’urlo del vento e un improvviso rumore di vetri rotti, come una bottiglia vuota lanciata a tutta forza contro un muro.
Io e i miei due coinquilini alziamo gli sguardi dai computer e i libri che ci tengono impegnati. La luce della cucina riempie i colori e li fa scivolare verso diverse variazioni dello stesso giallo.
Che cazzo era?”, fa Marco. È l’ultimo entrato in casa. Studia chimica e da settembre occupa il posto di Ste che ha finito gli studi e ha abbandonato Torino per un salubre e rilassante rientro a Biella. Preoccupato stringe i braccioli della poltrona e si tende in avanti, come se si fosse bloccato mentre cercava di alzarsi.
Yu, il terzo di noi, si alza dalla sedia con uno scatto. Tenendo la schiena leggermente inclinata apre la portafinestra del balcone e si affaccia sul cortile interno comune a praticamente tutto l’isolato. Sta attento a non lasciarsi bagnare dalla pioggia e a non scivolare sul pavimento umido. Si è trasferito in Italia due anni fa per studiare all’Accademia Albertina. Ha abbracciato facilmente tutti i modi italiani, ma malgrado i nostri sforzi educativi ancora non padroneggia bene le bestemmie.
“Diobono, bottiglia caduta”.

Si riferisce alle bottiglie che abbiamo ammassate sul balcone. Normalmente un pratico secchio le conterrebbe ma il comulo era troppo grande, quindi varie bottiglie di Poretti e Lambrusco soggiornavano placide e tranquille sul pavimento.
Ma la pioggia e il vento ha destabilizzato l’equilibrio vitreo del nostro altare alcolico e adesso le bottiglie tremano, oscillano e minacciano di rotolare sotto il parapetto, verso il vuoto.
Passano cinque interi secondi di gelo e silenzio.
Yu si ributta in casa, agitato. Marco, minacciando Dio di ignobili crimini, si scaraventa fuori e comincia ad afferrare bottiglie alla rinfusa. Corro a prendere dei sacchetti di plastica, aprendo tutti i cassetti di casa e probabilmente svegliando tutti i vicini.
“Cazzo cazzo cazzo, qui ci denunciano”, dico tra me e me. Pensate a tutti i casini che può creare una bottiglia volante. Ora pensate a tutti i casini che può creare una bottiglia volante dal sesto piano.
Il coinquilino cinese è agitato e sta sussurrando parole misteriose tra i denti. Stringe la mani davanti a sè e sembra decisamente confuso. Marco prende tutte le bottiglie che riesce a raggiungere e le lancia a casaccio verso la mia direzione. Una Becks da 33 mi scivola e lascia una chiazza di vetri rotti ai miei piedi. Poco male, l’importante è che non sia caduta di sotto. Intanto una lattina di Viktor (la birra più deplorevole che i discount siano autorizzati a vendere) sfugge al suo controllo e rotola giù. Ma le lattine non uccidono e non proiettano cocci di vetro a metri di distanza.
Una anziana sfida la notte e la pioggia affacciandosi dal palazzo di fronte. Urla qualcosa, poi corre dentro. Due scatolette vuote di “prezioso” tonno (come direbbe Marco) si lanciano nel vento e volano via, verso destinazione ignota.
Poi il cadavere di un Lambrusco Amabile Emilia scivola alle dita di Marco. Mi lancio, lascio che i miei vestiti si impregnino dell’acqua stagnante rimasta sul balcone. La tocco, la sfioro, ma non riesco a fermarla. La gravità la tira giù e due secondi dopo arriva lo scoppio.
Seguito da un urlo.
“L’ABBIAMO UCCISO CAZZO ABBIAMO UCCISO UNO“. Marco manco fosse un Navy Seal rotola dentro e lì si immobilizza. Io e Yu ci affacciamo al parapetto contemporaneamente. Un’ombra scura e incerta (ma di sicuro umana) è sdraiata sei piani sotto di noi. Torniamo dentro, chiudiamo la portafinestra, abbassiamo la tapparella, spegniamo le luci.
Tre sigarette accese sono l’unica cosa visibile nel buio della cucina. Marco trema, Yu dondola in posizione fetale sul pavimento. Io sto valutando l’idea di costituirmi alla polizia.
“Ragazzi, dobbiamo chiamare i soccorsi”.
“Li avran già chiamati. No no. No, noi ce ne stiamo qua buoni e facciamo finta di non esistere, nessuno può ricordarsi di noi, giusto?”
“Io torno Cina, domani”. Io e Marco lo fissiamo, pronti ad azzannarlo al collo.
“Tu non vai da nessuna parte. Se finisco in cella ci finite anche voi, cazzo” ringhia.
“State calmi. Magari non è morto. Magari era già lì” propongo.
“Noi non avere bottiglia. Ok? Noi nascondere tante bottiglia e nessuno vedere” – “La vecchia di fronte ci ha visto, capirà di sicuro. Dobbiamo ucciderla”.
“Ma che cazzo dici Marco, ma ti pare che ammazziamo una vecchia?”
“Noi già ucciso, uno morto o due morti è uguale”.

L’aria è densa. Nessuno si muove, nessuno parla. Non ci fidiamo tra di noi e ho come la sensazione che se provassi ad alzarmi Marco potrebbe puntarmi contro il coltello affilato. Cioè, l’unico coltello affilato rimasto in casa. Intanto un leggero vociare riempie il cortile interno.
Qualcuno suona il nostro campanello. Nessuno si muove, nessuno parla. Rimane sottointeso che la linea generale di condotta di casa De Paoli è l’ignoranza: non abbiamo visto niente, non abbiamo sentito niente; nessuno si muove, nessuno parla.

Dalla distanza si sente il suono delle sirene, più di una. Fuori tutto si tinge del rosso e del blu. Poi giallo, come se un fuoco stesse divorando la città e le nostre coscienze con essa. Le luci colorate proiettano ombre attraverso le fessure delle saracinesche, ombre colpevoli di aver mal disposto i propri rifiuti. All’improvviso un interruttore dentro di noi scatta, un istinto di sopravvivenza più forte della morale e del senso di colpa. Più forte della paura, più forte della densa nebbia di fumo marocchino che abita con noi.
“Come cazzo fa l’ambulanza??” – “Nino-nino, no?” – “Ma che cazzo dici quella è la polizia. L’ambulanza fa Neeeeeeeow”.
“Zai Zhong Guò jiù hù chē nin-nin-nin” – “Che cazzo dice questo??” – “E io come faccio a saperlo?” – “Ma cazzo non studi cinese te?”.

Poi realizziamo. Sono sirene miste. Polizia, ambulanza, carabinieri, guardia di finanza, corpo forestale e forse pure la guardia costiera. Ognuna con il suo suono distintivo, una cacofonia di Neeeeow, Nino-Nino e nin-nin-nin vari. Ci stanno tutti alle calcagna. Yu approfitta della confusione e si lancia in corridoio.
“Merda, merda, merda. Dobbiamo fuggire all’estero!” – “Ma che cazzo, io resto e combatto per i miei diritti!” – “Ma diritti di cosa? Sei un cazzo di omicida, ti mandano in prigione dove apprezzeranno le tue verginità” – “IO NON VOGLIO IL CULO ROTTO“.
Yu ritorna in cucina. Ha un rigonfiamento sotto la maglia. La solleva leggermente e ci fa vedere una pistola Desert Eagle placcata in argento.
“Noi rivoluzione MaoZedong, sì?”

Siamo pronti.
Un muro di armadi blocca la porta d’ingresso. Oltre, una trincea di ignoranza made in Moretti e di San Crispino Limited edition (quello in bottiglia di plastica, non in brik) ci fornisce sufficiente riparo. Marco ha per l’occasione appeso al muro dietro di noi una vecchia maglietta nera e ci ha disegnato sopra il logo dell’ISIS. Stringe in mano l’ultimo coltello affilato. Yu si rigira tra le mani l’arma da fuoco e io sono pronto a lanciare la mia scorta di Molotov ricavate dalla nostra collezione di Vodka дерьмо.
“NON CI AVRANNO MAI”.

A cura di Emanuele Ferraris

Mi piacciono la musica, le droghe leggere ed evitare le mie responsabilità.

1 Commento

  1. Rispondi

    stefano

    Ho riso.
    🙂

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