Ho sempre pensato che ci fosse una specie di barriera, livello, confine, per cui ad un certo punto si smette di essere nella vita di qualcuno.
Con il tempo ho imparato che lo pensavo solo io.
Ero intimamente convinto che arrivati ad un certo punto semplicemente si smettesse di far parte del vissuto delle altre persone, si scomparisse nelle nebbie del tempo, lasciando una imago di sè, un po’ vera, tanto falsa.
Era come un dogma per me.
Certi eventi conducono a quel punto, ci si saluta e non ci si rivede mai più. O almeno, lo pensavo per difendermi. Uno dei meccanismi basilari della nostra psiche si chiama “meccanismo di rimozione” e io lo applicavo pedissequamente. Se mi fai male, ti elimino, ti anniento dalla mia vita. Il perdono è sempre stato qualcosa che ho fatto a fatica.
Crescendo, ho imparato che il perdono, non l’eliminazione, è la più grande liberazione.
Non sempre mi riesce, ogni tanto ci provo.
Questo, sommato al fatto che le persone hanno sempre avuto una immagine di me migliore dell’immagine che ho avuto io fino a qualche anno fa, ha creato una strana combinazione per cui si sentono tranquilli nel prendersi libertà che con altri non si prenderebbero.
Dire di avere le spalle grosse, è facile.
Averle davvero, significa questo.
Mi sono sempre descritto come un sensibile e questo nella mia mente ha sempre avuto la connotazione di debole, cioè che le parole degli altri hanno un peso (vero) e quindi, se lo hanno, me la devo vivere male (falso).
Le parole hanno un peso, ma mi sono stufato di stargli dietro. Le azioni, sono quelle che contano. Essere sensibili, alla fine, vuol dire questo. Sentire le cose, ma non farsi piegare da esse. Se sento qualcosa, se ne sento il peso, non significa che non sia in grado di togliermelo di dosso e rialzarmi, lasciando correre e scorrere.
Se vedo la realtà in modo più profondo che gli altri, significa che mi sono abituato prima alle sue connotazioni e variazioni. O forse, è il contrario, essendo stato costretto prima ad abituarmi al dolore sono diventato sensibile ad esso. Ma una volta che lo riconosci, gli dai un nome, una forma, lo si affronta e si va avanti.
E si diventa forti. Ma quel forti davvero, quella sicurezza che pian piano ti costruisci che non deriva dai meriti, dagli altri, ma da quelle vittorie e risultati che porti a casa per te stesso.
Allora, si sarà pronti. Quando il tempo ti porterà in quel momento che sapresti che sarebbe arrivato prima o poi, e lo affronterai con un sorriso sardonico. La ruota gira. Se si è maturi, si capisce che le parole vendetta, rivincita o quello che si vuole, sono solo un sapore amaro che ci rimarrebbe in bocca.
Invece, si deve andare davvero avanti, oltre al dolore, a quello che una volta ci ha piegato, lasciare andare tutto quello che è stato e che potrebbe essere stato.
Ed essere finalmente liberi.