Siamo in macchina. I miei davanti, io dietro con mio fratello e mia sorella. Gameboy acceso, Pokémon Platino inserito. Oramai è circa così da quando di anni ne ho otto. Ogni tanto sono silenzioso, altre volte ho un libro in mano. Tutte le volte, però, non ho voglia di vedere nessuno. Di parlare con nessuno.
Spengo il cellulare.
Può capitare che abbia le cuffie nelle orecchie. Vado a ripescare nei meandri della memoria tutta quella serie di gruppi e musicisti che parlano a quella parte di me che non riesce a sorridere oggi.
Siamo tutti qui, in colonna, che ci muoviamo senza neanche sapere perché. Andiamo a trovare chi ci ha lasciato, chi se ne è andato. Quando entro nel cimitero, sento come se l’infinito si aprisse davanti a me. Muovo i piedi sulla ghiaia, e mi sembra di spargere stelle sulla via lattea. Di fronte all’unico fatto inequivocabile ed incontrovertibile della vita stessa: che essa finisce.
Il tempo passa. Più passa, più i cimiteri si popolano di Persone, delle mie Persone.
Una volta, da giovane, avevo le risposte. Riuscivo, con qualche preghiera, a scacciare da me la paura della morte. Di quella degli altri. Con il tempo però ed un incidente stradale di mezzo, sto iniziando pure a mettere in conto che neanche io sono infinito.
Così, come ogni cosa che faccio, mi chiedo la ragione ultima dietro a queste nostre azioni.
Andiamo a trovare i nostri defunti per ricordarli? Per ricordarci che anche noi, un giorno, saremo lì, in mezzo a centinaia di altri rimasugli di quello che una volta era stato un corpo che si muoveva, parlava, mangiava, faceva l’amore, aveva idee e viveva?
Guardo le persone intorno a me, mi chiedo cosa passi loro per la testa. Genitori rimasti orfani, che guardano i figli osservare le tombe dei padri, sapendo che un giorno saranno loro, forse, a osservare i loro figli che distrattamente chiedono domande sulle storie delle vite della loro famiglia.
Mi vesto sempre con una camicia. Perché ci tengo, in qualche strana maniera, ad essere presentabile. Forse sarà che davanti alla prova provata che la fine non è solo un qualcosa con cui ci piace riempirci la bocca, ma che invece è vera. Lì, davanti a noi.
Nella mia tasca destra, dei piccoli soldatini della morte, che ad ogni sbuffata mi avvicinano a quel minuto, all’attimo, in cui tutto finirà. Contabilizzo le ore passate ad arrabbiarmi e spero che siano meno di quelle che ho passato ad amare.
La fine, la morte. Quel concetto che crea la sua antitesi, la vita. Senza la fine, non ci sarebbe tutto quello prima. Questa è l’unica risposta che ho al momento. Stasera mi travestirò, in modo apotropaico, per allontanare più possibile da me la fine di tutto, per cercare di vivere.
Spero solo che quando mio figlio o mia figlia mi guarderanno e mi chiederanno “Perché?” io sarò in grado di dare una risposta con un senso. Sarebbe bello. Non so quanto vero, però.