Anna, oggi, è uscita prima da lavoro. Cammina senza fretta, mentre il sole ancora alto in cielo le scalda il cuore. Oggi non deve correre per raggiungere in tempo il tram alla fermata, non deve trovarsi un passatempo per la sua mezzora in metro, non deve nemmeno pensare, durante il lungo tragitto verso casa, se è rimasto ancora qualcosa in frigo da mangiare. E per di più, l’idea se una volta fatti cinque piani di scale sarà troppo stanca per uscire (domanda alla quale solitamente si risponde di sì, che è troppo stanca persino per scaldarsi un surgelato al microonde) nemmeno le sfiora la testa.
Oggi Anna può viversi le sue ore migliori, quelle apparentemente bianche e vuote; le ore in cui la vita, quella che con un po’ di insolenza noi chiamiamo vera, e dunque fatta di amori, avventure e follia, può farsi attendere per lasciare spazio ad un apparente e opaco niente.
Anna cammina fino al Duomo, mangia un gelato e con un calcio agita uno stormo di piccioni. Le sigarette dopo il gelato sono più buone, i capelli le danzano sul viso mossi dal vento. Oggi tutte quante le cose vanno un po’ più lente: il tram arancione, i passanti, le nuvole che si rincorrono alte nel cielo, i liceali con le buste di Zara e di H&M, persino l’orologio che batte i secondi sul suo polso bianco. Milano, i suoi palazzi, le sue strade, è tutto lì, come un quadro abbastanza vicino per poterne cogliere ogni segreto e sfumatura.
Anna, allora, si tocca la tasca dei suoi jeans neri e strappati sui ginocchi. Anna pensa. Va su Instragam, poi su Facebook e ancora su Instagram. Il suo annoiato polpastrello pigia e scorre istanti di vite differenti: un boomerang di passi sulle strisce pedonali, una torta al cioccolato, un dito medio, una sbronza della sera prima, un libro di Pennac, due ragazze che ballano Despacito in macchina, un panino al salame, la Mole antonelliana, la pioggia sui viali di Venezia, una mostra di Modigliani, una valigia abbandonata alla stazione, un selfie di una tizia di cui non ricorda nemmeno il nome.
Anna sbuffa il fumo della sigaretta, ma sbuffa anche per qualcos’altro. Poi, i suoi occhi grigioazzurri si alzano di nuovo, mentre il ragazzo con i rasta alla chitarra intona un pezzo forse di Bowie, Anna ora non se lo ricorda bene. Ma si alza lo stesso e decide di andare proprio davanti a quel rastone con la camicia di lino e la chitarra tutta consumata. Anna mette la mano in tasca, prende quello che deve prendere e fa quello che deve fare: il tintinnio di una manciata di monetine che rimbalzano a terra fa fare come uno scatto al musicista, che allora le sorride. Anna, a sua volta, sorride.
Il sole ora è quasi sceso, Anna si stringe fra le spalle e cammina più veloce. Guarda gli uomini ingobbiti sui loro schermi piatti riflettenti che le passano a fianco, tutti troppo impegnati a vivere la vita di qualcun altro, per viversi la loro. Anna sorride nuovamente. Questa volta, però, perché lei sa una cosa che loro nemmeno si immaginano: Anna conosce l’importante segreto di sapersi godere le sue ore migliori. Sa che a volte il sapore della vita è proprio quel non fare nulla, quello starsene fermi e immobili a guardare il mondo rallentare, quello smettere di volere sentirsi parte di qualcosa, e accettare, anzi, di essere solo un puntino di materia insignificante nell’immensità caotica e inspiegabile dell’universo. Anna, oggi, ha capito che è proprio quando tiriamo fuori quei cosi per sentirci meno soli, che lo siamo davvero.
Queste sono le ore migliori di Anna, che oggi è uscita prima da lavoro, che oggi non deve correre per prendere la metro; che vuole, anche solo per un quarto d’ora, sentirsi finalmente libera.