Oggi i cittadini britannici si stanno recando alle urne per decidere se il loro Paese continuerà a essere un membro dell’Unione Europea oppure no: una scelta politica potenzialmente di portata storica. Proprio volgendo lo sguardo al passato, il Regno Unito entrò a far parte dell’Unione Europea (allora CEE) nel 1973 e, nel 1975, lo stesso referendum vide affermarsi una robusta maggioranza sostenuta dal 67% dei voti a favore della decisione di allora: la scelta fu supportata principalmente da ragioni di natura economica. Il Regno Unito vedeva nel mercato comune un’opportunità per risollevarsi economicamente, ma l’interesse non era già però rivolto a un’unione di natura politica. Si ritenne che il passare del tempo avrebbe contribuito a mitigare l’iniziale diffidenza ed è possibile che sia stata proprio anche questa ambiguità a contribuire alla crisi del rapporto tra il Regno Unito e l’Unione Europea.
Nel corso della recente campagna referendaria, i due fronti, ovvero quello del Leave e quello del Remain, si sono confrontanti insistendo rispettivamente il primo sul tema immigrazione, in particolare in termini di costi per il sistema di welfare britannico, mentre il secondo sul tema economico, ovvero sugli effetti negativi che un’eventuale uscita del Regno Unito dall’Unione Europea potrebbe comportare. In questi ultimi giorni alcuni Paesi europei, prima fra tutti la Germania, hanno minacciato esplicitamente (in caso di Brexit) l’esclusione dal mercato unico del Regno Unito. Viene da chiedersi quanto queste minacce siano però credibili, ovvero se sia davvero possibile che i Paesi dell’Unione Europea decidano di imporre tariffe doganali sui prodotti importati dal Regno Unito. D’altro canto, la Brexit apre però la strada a un altro problema: con il precedente di un evento relativamente indolore, ovvero con un’eventuale uscita “ordinata” dall’Unione Europea da parte del Regno Unito, la solidità dell’intero progetto europeo verrebbe messa nuovamente in discussione. Il messaggio che verrebbe trasmesso sarebbe quello di un’unione “a porta girevole”, intesa come un accordo temporaneo; anche se occorre però tener presente che anche un’eventuale vittoria del fronte del Leave non porterebbe all’automatica uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, in quanto (dal punto di vista giuridico) lo strumento referendario ha “solamente” funzione di indicazione per l’indirizzo dell’attività di governo.
Guardando ai mercati, in questi ultimi giorni si è assistito a un incremento della volatilità (che è ancora nettamente inferiore a quella raggiunta la scorsa estate con i dubbi circa la sostenibilità del rallentamento dell’economia cinese), l’euro (nonostante la politica monetaria straordinariamente espansiva adottata dalla Banca Centrale Europea) ha guadagnato terreno sulla sterlina, rimanendo però sopra i minimi toccati all’inizio del mese di aprile, i rendimenti dei titoli di stato britannici sono persistentemente sui minimi storici e il FTSE 100 è ancora tra i “migliori” indici tra le piazze europee da inizio anno.
È piuttosto interessante invece notare come le vendite abbiano colpito pesantemente i titoli del comparto finanziario, che però risultano essere sotto pressione soprattutto a causa del protratto periodo di tassi a zero, che influenza pesantemente la reddittività degli intermediari in termini di margini di interesse, e dai rendimenti sotto-zero che caratterizzano ormai la metà dei titoli obbligazionari emessi e scambiati sulle piazze del Vecchio Continente.
La questione politica non interessa comunque solo il Regno Unito, il referendum arriva in un momento delicatissimo. Con il voto sulla Brexit si aprirà una stagione di appuntamenti elettorali in tutti i principali Paesi europei: dopo pochi giorni vi saranno le elezioni politiche in Spagna, a ottobre si terrà il referendum costituzionale in Italia e a seguire (nel 2017) le elezioni nazionali in Olanda, Francia e Germania. In tutti i paesi europei i cittadini sono diventati tendenzialmente molto più euroscettici e fortemente attratti dalla propaganda dei partiti antieuropei, anche quando povera di contenuti. Queste opinioni negative riflettono però due problemi reali di fondo, quali: l’andamento economico deludente dell’area euro e l’emergenza immigrazione. Per risolvere queste questioni occorrerebbero molto probabilmente passi in avanti concreti nel progetto di integrazione tra i Paesi europei, ma una grossa parte dell’opinione pubblica europea è convinta del contrario e dopo aver perso fiducia nelle istituzioni europee sembra essere attratta dalla propaganda nazionalista.
Fino a oggi ci si è sempre basati sul presupposto che nella realizzazione del progetto europeo si potesse andare solo avanti, ma politiche che sarebbero dovute essere coordinate a livello europeo, come la politica estera e la difesa, attraverso la gestione dell’emergenza immigrazione e la creazione di un esercito unico, non hanno dato nemmeno l’impressione di esserlo. Spesso si è invece coordinato ciò che era facilmente possibile, anche se irrilevante.
La dissoluzione dell’Unione Europea non rimane tuttavia la risposta a nessuno dei problemi ai quali si è fatto riferimento, questa renderebbe singoli Paesi pressoché irrilevanti sul piano internazionale (in un mondo dominato da giganti come Stati Uniti, Cina e India). Altrettanto irrilevante è però un’Europa di 28 Paesi che non riesce a condividere politiche che non siano accettate con un minimo di entusiasmo da una larga maggioranza dei cittadini. Il progetto di un’Europa pacifica, democratica ed economicamente sviluppata rimane sempre valida, gli Stati Uniti d’Europa sono stati un sogno per generazioni di europeisti, ma oggi questo necessita oggi di essere aggiornato e ridefinito. I problemi non si risolveranno da soli o esclusivamente attraverso l’adozione di misure di politica monetaria straordinariamente espansiva.
P.S. Non badate troppo ai sondaggi in ambito politico, spesso sono più instabili dei mercati finanziari.