Buona la prima #5 Eravamo io, Kafka e Leopardi - TheCio

Buona la prima #5 Eravamo io, Kafka e Leopardi

 

C’è un impiegato di banca che un giorno riceve la visita di alcuni uomini che immediatamente lo dichiarano in arresto. Al malcapitato viene tuttavia concesso di continuare la sua vita di tutti i giorni, nonostante sia consapevole del fatto che attorno a lui si sta svolgendo un processo. Quale sia la sua colpa, questo proprio non si sa.

 

Con queste poche righe potremmo riassumere l’incipit de Il Processo di Franz Kafka, libro che Levi aveva definito, dopo averlo tradotto, «saturo di infelicità e di poesia, che lascia mutati: più tristi e più consapevoli di prima». In effetti quel libro aveva davvero cambiato la vita a Primo Levi, che fin dall’esperienza del Lager aveva tentato di riversare in scrittura la sua esperienza, sviluppando negli anni la sensazione di una colpa che gravava sugli uomini. Per Levi, Il Processo è stata la conferma sotto forma di letteratura di questo suo già maturato e angoscioso sentimento.

 

Ma siamo di fronte ad un libro che te la cambia davvero la vita. Quando ci si immerge fra le turbinose avventure del protagonista Josef K., non si può evitare di ridere e allo stesso tempo pensare, di divertirsi ma allo stesso tempo di provare un grande affanno. La storia via via prende forma, e presto ci si accorge che i temi sono tantissimi: la solitudine; la difficoltà di avere un rapporto con il mondo e con le cose che ci circondano; l’impossibilità di afferrare il senso della realtà; il sentirsi un alienato dalla società; l’essere il bersaglio di una macchina della quale si ignorano gli intenti e le azioni.

 

Per alcuni sono tanti i sono giorni in cui ci si sente così, estranei al mondo in cui si vive, estromessi dalla realtà che ci circonda. Quando capita a me, i miei pensieri non possono che andare al povero Josef K., vittima di una società a lui incomprensibile e di una realtà che sembra non lasciare spazio ai suoi dubbi e alle sue insistenti domande. E allora, come K., anche io mi sento un po’ più solo, un po’ più piccolo, mi domando i perché di una realtà che proprio non riesco a comprendere fino all’osso, di un mondo che è troppo angusto per la vastità dei miei pensieri, che non è pronto a rispondere alle mie di domande. E mi chiedo che cosa diavolo ci faccio io, al mondo.

Ma come fare a restare a galla e a non fare la fine del povero Josef K.?

 

Forse non c’è alcun modo se non la dura accettazione di una scomoda realtà. Forse si può a malapena tentare di combattere per salvare la nostra dignità dal mare dell’assurdità. O forse, forse si può fare un passettino in più.

Ecco che viene in mente un altro grande classico: Giacomo Leopardi. Il poeta che forse più di tutti viveva immerso in un tale pessimismo che col tempo è divenuto “cosmico”. Anche Leopardi si sentiva figlio di un secolo leggero, sbagliato, di una società priva di valori, dove l’uomo è ingannato dalle illusioni e dall’ambizione di raggiungere un piacere che mai arriverà. Bella fregatura, direte voi.

 

Ma c’è un Leopardi che spesso ci si dimentica; il Leopardi della Ginestra, il «fiore che i deserti consola», che sottrae dalle illusioni e dalle vane speranze. Ed è proprio quel Leopardi che ci ricorda che, in mezzo a tutto quel caos che è la vita, c’è però una cosa che ci può consolare: la solidarietà. Il fatto che anche le nostre disgrazie esistenziali possono essere condivise.

Possiamo allora sentirci vittime di una realtà che non comprendiamo, possiamo urlare al vento le nostre angosce, possiamo affannarci per trovare il senso della nostra esistenza e chiederci continuamente perché siamo così diversi, così sensibili, e sì, così maledettamente tristi e consapevoli. Possiamo farlo. E forse non saremo come il povero Josef K. Forse saremo tristi e consapevoli, ma maledizione, non saremo soli.

Lorenzo Sereno Martinotti

A cura di Lorenzo Martinotti

Musicista - scrittore - studente di lettere. Il resto conta poco.

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