Continua da “Della Natura“.
Tra i soffitti azzurri del palazzo le notti e i giorni si susseguono senza distinzione. La fame non mi preoccupa, la sete non ha bisogno di essere placata. È come se il mio corpo non riconoscesse più la sua appartenenza al mondo materiale.
La Madre dei Campi camminando non lascia impronte sulla morbida erba. Gli steli si piegano dolcemente sotto il suo peso per poi tornare dritti subito dopo il suo passaggio.
Io invece, per quanto provi a camminare leggero, continuo a schiacciarli, lasciando poco a poco le tracce dei miei movimenti. Eppure se mi guardo indietro non mi vedo compiere nessuno spostamento. È come se in quel palazzo io non abbia mai realmente messo piede. Gli oggetti non mi richiamano memorie. Non riconosco le pareti. Le stanze, per la maggior parte vuote, non significano niente per me. I solchi che lascio tra i fili verdi sul pavimento sono l’unica prova della mia esistenza.
Mi sveglio col suo sorriso. È immerso in un mare di capelli talmente lisci da non poter essere afferrati. Le sottili labbra avvolgono la mezzaluna bianca in maniera talmente naturale da sembrarne un semplice prolungamento. Come la prima volta, ad osservare quel volto, mi sembra mi manchi il fiato.
“Oggi dobbiamo uscire dal palazzo.”
Digerisco la frase. Cerco di afferrare qualche ricordo di conversazione a riguardo, credendo di essermelo perso, ma non ricordo nulla. È del tutto inaspettato. Eppure una tenue e costante sensazione di serenità mi convince di come tutto stia procedendo per il verso giusto: oggi dobbiamo uscire dal palazzo.
La seguo per due ore verso nord. Cammina senza conoscere fatica. Seguire le sue impronte mi ricorda di quando seguivo quelle del Maestro. Ancora mi chiedo se fosse davvero frutto della mia immaginazione. Malgrado tutte le prove lo confermino, una parte di me è sicura dell’esistenza del burbero insegnante.
Arriviamo ad una piccola foresta, imprevista in mezzo a quella distesa di sabbia e rocce. Ci inoltriamo tra gli alberi. La vegetazione si sposta di lato di fronte a lei, curvandosi se necessario. Mi affretto e cerco di seguirla più da vicino per sfruttare il percorso che si lascia dietro.
Raggiungiamo un piccolo lago. Il fondale sembra andare giù a picco dopo neanche due metri di battigia. Il blu profondo dell’acqua lo conferma.
“Ho bisogno di scriverti sulla pelle” mi dice con la solita voce.
“Perchè?” domando.
“Fai troppe domande.”
La sensazione di serenità di stamattina non è svanita, così lascio che mi spogli dei miei vestiti. Mi fa stendere a terra. Bacia la mia pelle e sussurra parole che non capisco alla mia carne. Le sento accarezzarmi. Mi godo il tremolio che i peli del mio corpo assorbono ad ogni vibrazione della sua voce. Chiudo gli occhi.
Quando li riapro lei è in acqua. Uscendo si scrolla le poche gocce rimaste sulla sua pelle che immediamente torna asciutta. I suoi capelli bagnati e appesantiti riprendono subito la loro forma.
Mi guarda, mi sorride e mi oltrepassa, dirigendosi verso un enorme albero alle mie spalle. Intanto la ammiro. Un grosso segno che mai ho visto le solca la schiena. È di un rosso intenso, come legna che arde. Emette anche la stessa luce. Ha la carne in fiamme e vuole che io la veda: sono sicuro che senta il peso del mio sguardo addosso. Mi sembra anche ne goda. La raggiungo vicino all’albero. Incrocio le gambe e siedo per terra, poco lontano da lei.
Senza aiuto si siede sulle radici, poi si appoggia al tronco. Un leggero fumo si solleva quando la carne riarsa entra in contatto col legno. I suoi occhi mi trasmettono pace e tranquillità. Sembra quasi vogliano consolarmi, rassicurarmi della mia innocenza.
All’improvviso il suo corpo perde consistenza e diventa una sagoma verde. Le radici e il tronco su cui appoggiava non la sostengono più e la assorbono.
Nello stesso istante le parole che aveva sussurrato al mio corpo diventano materia e aprono tagli profondi nella mia pelle. La carne scoperta ha lo stesso colore del simbolo che portava sulla schiena. Urlo così forte da smuovere le fronde degli alberi. Senza prendere fiato urlo ancora, sento i polmoni bruciare.
Abito la foresta. Ogni mattina mi sveglio sotte le foglie degli alberi. Appena apro gli occhi comincio a correre, per buttarmi il prima possibile nel lago. Il verde percepisce la mia sofferenza e si sposta di lato, proprio come faceva di fronte alla Madre.
Ogni volta che le mie piaghe toccano l’acqua, il dolore cessa. Ogni volta che abbasso lo sguardo sulle mie ferite, il dolore ritorna.