Ho aperto gli occhi su una Torino schifosamente felice.
Mi osserva dal basso delle strade, dalle cime degli alberi secchi che crepano il vetro azzurro e perfetto che ricopre il cielo.
Mi sono alzato del letto e sono corso in bagno ad attaccare le labbra al rubinetto, più in fretta, più veloce. Dopo poco sono sull’asse che getto tutta l’incompetenza del mondo rimasta sullo stomaco la sera prima. Lei e l’assenzio.
Il sole mi guarda benevolo dal soggiorno, lo invade, lo fa suo. Mi osserva con uno sguardo da San Francesco, “tutto perdonato”, compresa la depressione e lo spiccato senso di superiorità che mi prendono quando sono sbronzo. Ho la testa dentro un tubo ora. E il tubo è sotto 5 cm di cemento e la punta di un martello pneumatico che preme per far valere le sue ragioni.
Credetemi, ha ottime argomentazioni.
La stella traccia una parabola in cielo ma non abbandona quella smorfia di amore infinito. Ci sprona a migliorare, come se io potessi, come se volessi.
La cosa divertente è che sono meteopatico. Voglio dire, le nubi mi danno malinconia e tristezza, ma oggi… Oggi DEVO essere abbattuto. Eppure l’universo ha deciso di non volersi sentire come me. Ha deciso di riunirsi in cerchio e di cantare la bellezza in ogni cosa, proprio dopo che ho sputato per terra: vuole sbugiardarmi.
Abbasso la tapparella e mi rivesto di coperte, tremo meno. Dalle fessure entrano lame di luce che si conficcano nella mia carne e mi immobilizzano. Sole benevolo, eh?
Non ci ho mai realmente provato, ammettiamolo. Ho intravisto in fondo a me una qualche sorta di fobia e mi sono attaccato al suo seno, succhiando tutta la bile che potevo.
Sarei dovuto crescere e abbandonare quel capezzolo mesi fa, forse anni. Eppure sono sempre al punto di partenza, solo e con i palazzi curvi che si reggono sul mio petto.
Mi sono buttato sul lavoro (quello che non mi pagano) tanto per sentirmi a posto con la coscienza. Devo prendere una traccia audio di 4 minuti ed editarla. Ogni colpo di rullante è uno schizzo di cervello che si incolla sul muro alla mia sinistra, ogni grancassa un pugno in pancia.
Sono già le 17 e devo concedermi una sigaretta. Esco in balcone e lo ritrovo pronto, l’astro. Mi sussurra lentamente e scandendo bene le parole -Non ti preoccupare, fa lo stesso se scappi e ti chiudi in quel cubo per evitarmi-
Lo ignoro totalmente, mi riempio le orecchie di canzoncine. Striscio pesantemente i piedi sulla piastrella, mi cullo in quello stridore. Sbatto la porta rientrando e mi porto dentro portacenere e sigaretta, accesa.
Chissà cosa mi direbbe adesso Penelope. No, lo so, non direbbe proprio un cazzo di nulla, staremmo stesi sul letto tutto il giorno a bere thè e tisane, a passare le dita sulle nostre schiene e a fare l’amore.
A tenerci la testa a vicenda sul cesso, forse.
Ma che diavolo ci faccio qui? Perchè trascino questa carne? Perchè non sono a coltivare il mio campo su qualche isola del cazzo in mezzo al nulla? Perchè non mi sono ancora acceso una canna? Ad una di queste domande rimedio, indovinate quale. Butto la sigaretta e mi do da fare.
Bukowski sparava merda sull’erba. E lo dico solo perchè sto leggendo un vecchio libro suo trovato nella libreria dei miei. Strano: i miei non leggerebbero mai roba del genere.
Quel vecchio pazzo era Dio. E lo sapeva, credetemi, era sicuro di essere Dio. Per questo era ubriaco già alle 8 di mattina.
Però ce l’aveva con erba e hashish. La vedeva come una cosa della nuova generazione, dei figli di papà con i soldi, il cervello pieno di feci e una noia innata, quella aristocratica.
E come dargli torto, al vecchio Chuck? Sono quelli con la 500 rossa, sono loro che negli anni 50 fumavano erba. Li avrei odiati anche io.
Non so perchè io abbia un piccolo ubriacone, un Bukowski in miniatura sulla spalla che soffia e sputa sulla punta della canna. Mi sta odiando, ed in fondo, io odio lui. O almeno in questo momento. Ci soffia così forte che dalla mia bocca lo spinello salta e mi buca i pantaloni, mi fora la carne della gamba e cade sempre più giù, verso l’appartamento della signora Cornero, quella di sotto. Guardo attraverso il buco nella piastrella del pavimento e ci vedo la cantina, la terra di sotto, una palla di fuoco incandescente ancora più in basso. Mi addormento sul pavimento.
Alle 8 sono in piedi che corro come un dannato tra la doccia e la cucina, cercando di prepararmi la colazione mentre aspetto che l’acqua in bagno diventi calda. Ho sognato tutta la notte e sono quasi sicuro di aver visto mia madre, in uno di quei deliri; almeno oggi nessuno trapano nel mio lobo frontale.
Salto sul treno per Biella e alle 10 sono sotto casa sua. Le avevo promesso che passavo per un caffè, una mattinata assieme.
Il sole mi guarda con gli occhi stanchi di chi ieri ha fatto gli straordinari e oggi appena riesce a reggersi sulle proprie gambe. Non mi parla, manda una luce pallida, malinconica, senza calore. Scivola sugli oggetti, si porta via il colore. Elea sta in mezzo a questo grigiume; i suoi occhi però hanno il mare dentro, un inverno nucleare ne ha congelato le onde. Sono linee morbide, tonalità di grigio e azzuro, turchese forse, che si mescolano e sembrano sfidare la stella in cielo.
Mi butta la tazzina di caffè sul tavolo mentre si prepara The e pane e marmellata. La sua casa è meravigliosa, moderna ma calda. Mi apre la porta di camera sua, una stanza che riflette la giovinezza che (credo) si porti dentro. Sento una rotella che si inceppa nella mia testa, un segnale di allarme che mi rassicura: sto sbagliando. Su queste cose sento il bisogno di sentirmi in errore, almeno per qualche anno ancora.
Siamo sul letto e parliamo. Non ho il coraggio di incrociare le gambe, di toccarle le mani, di guardare il suo collo, di soffiarle i capelli o di baciarla. 3 ore sono brevi, siamo già in macchina che la scarico da qualche parte vicino a dove deve andare. L’ho baciata sulla guancia, la sua sinistra. Il sole mi ha mandato un raggio, uno solo, di mortale inadeguatezza. Cosa faccio qui? Perchè non sono rimasto ieri, nel mio letto, per sempre? Cosa mi dice ancora di provarci, il gusto della bile non mi è forse sulle labbra? Quanto ancora dovrò cercare, provare e assicurarmi che gli ultimi anni non siano altro che un terribile errore, prima di poter riprendere la mia strada sicuro di me e della mia felicità, della sua genuinità? Quando avrò la sicurezza, quando avrò escluso tutte le possibilità dovrò allora demolire tutte le persone che mi hanno indicato convinte la via, mentre in fondo la via già la conoscevo, già era dentro di me. Le ho viste guardarmi e giudicarmi, tentare di aiutarmi e in buona fede sbagliare. Non si capacitavano (ancora non lo fanno) di come le mie braccia non siano fronde ma radici ben nascoste e fissate nella terra: si godono l’ombra delle foglie sopra di loro. Così mi godevo l’ombra dei suoi ricci, di Penelope. Ha un albero la coscienza di essere un solo essere? Percepisce i suoi elementi come cooperanti macchine finalizzate alla sua esistenza? Vedono i bulbi il fogliame sopra di sè e ne comprendono l’importanza?
Bianco, il sole mi da le spalle.
E.F.