Osservo mia nonna immobile, sulla sedia.
Sta fissando suo marito, mio nonno materno, da quando sono entrato nella stanza 28 del reparto di Chirurgia Generale, forse da prima.
Deve essere operato al colon; devono levargli un tumore; deve subire un altro intervento, domani mattina, quando sarò ancora nel caldo delle coperte.
Nella stanza ci sono anche mia sorella e i miei. Mia madre cammina per la stanza, smaltisce l’agitazione così. Mio padre è appoggiato al muro che chiacchiera col malato, mia sorella partecipa alla conversazione. Marina, mia nonna, è immobile: guarda l’altra metà del suo matrimonio seduta sul letto e non ha nessuna intenzione di muovere gli occhi di lì. Sono spalancati, non si lasciano sfuggire nulla: se smetto di osservarlo, pensa, me lo portano via.
Sono nell’angolo, su una sedia a rotelle che osservo la scena. Sento il petto creparsi nell’istante preciso in cui realizzo tutto il loro amore, ed è bellissimo.
La mia pelle non porta rughe, i miei occhi hanno visto un quarto di quello che hanno visto quelli di mia nonna. Ma lo sguardo, quello sguardo, lo riconosco.
E’ insensato pensare a Penelope? Lei aveva quello sguardo. Io la amavo, e la amavo di più ad ogni occhiata che mi rivolgeva. Riconosceva le rughe sotto ai miei occhi, le voglie che le concludono.
Io, in compenso, avevo in testa la sua schiena, con i suoi nei e le sue linee, una precisa mappa del filo della sua spina dorsale. Probabilmente se vi lasciassi cadere ora la mano, ritroverebbe la sua strada e raggiungerebbe immediatamente quell’isola nera in mezzo al mare rosa, il neo perfetto.
Mi è impossibile immaginare la mano del biondiccio camminarvi sopra. Impossibile forse, è la parola sbagliata, ma non c’è niente che descriva l’immagine buia di loro due assieme, coperti dai sentimenti e nient’altro.
L’altra sera l’ho vista, l’ho incontrata. Abbiamo parlato, a lungo (mai quanto vorrei), delle banalità e di chi siamo, se qualcosa ancora siamo. Tagliando corto, io non so parlare di lei. Io so, forse, parlare con lei. Ma descriverla, non ha senso quando la sua voce è nella mia, quando la luce rimbalza allo stesso modo sui nostri occhi. E a che pro dovrei rendervi partecipi dell’oggetto del mio amore? Sono sicuro che la maggior parte di voi riesce senza problemi a inquadrare il mio sentimento per lei e a collegarlo al proprio amore.
Mentre mi diceva del male che le ho fatto, ho fatto un tiro profondo di spinello e ho trattenuto il respiro più che potevo. Le orecchie hanno perso il loro solito fischio, le macchine che passavano dietro di noi si sono come sollevate, i motori si sono spenti e per un breve istante, lo giuro, ho sentito il suo respiro al posto del mio, pochi secondi prima che i miei polmoni esplodessero e mi obbligassero a mangiare più aria possibile. Ho per tutta la sera parlato con una voce che non mi apparteneva ed ho affogato il mio ego nelle sue pupille nere, quasi aspettandomi il vuoto dietro di lei.
Ad un certo punto, quando i nostri occhi erano abbastanza umidi, ho cercato il suo ginocchio con la mia destra, un movimento spontaneo per richiamare l’attenzione, il movimento giusto che avrei fatto due anni fa.
Mi sono bloccato, ogni contatto fisico con lei mi sembrava assurdo, un crimine imperdonabile di cui non mi sarei MAI dovuto macchiare. La mia mano dopo pochi centimetri è tornata indietro, al suo posto ma Penelope si è voltata, proprio come due anni fa. E come allora portava lo stesso sguardo, QUELLO sguardo.
Quello che mia nonna ora appoggia con cura sul corpo di mio nonno, quello che mi cercava nel buio di camera mia quando tiravamo la tenda alla finestra per non lasciare entrare nulla da fuori, non il tempo, non il Sole.
Quando ci siamo salutati mi ha chiesto se avevo altro da dirle. Cosa avrei dovuto aggiungere? Cosa avrei dovuto fare? Un bacio mi sembrava inappropriato, mi sono sentito totalmente disorientato. Le ho chiesto di farsi abbracciare. E’ stato imbarazzante, patetico quasi. Ho stretto il suo busto, adagiato la mia testa sulla sua spalla. Era un abbraccio sbagliato e non me ne è fregato nulla. In quel momento i suoi ricci coprivano ancora una volta i miei occhi, i miei muscoli si sono lasciati andare. Il mio corpo mi ha sbraitato contro, mi ha ricordato che ha ragione, che lui ha sempre saputo dove devo essere. E in quel momento dovevo essere proprio lì, in mezzo a quel bosco di capelli mossi.
Se oggi mi sono vietato di scriverle, malgrado il mondo mi suggerisse solo quello, è in nome di quello sguardo. O almeno così mi dico per sentirmi preso da un progetto, uno di quelli con un obiettivo finale, fisso; uno di quelli che, siamo sicuri, ci renderà più felici, più completi.
Come quando ci diciamo “da domani mangio più verdure” o “adesso imparo il cinese”.
Ma io il progetto non ce l’ho.
Penelope mi diceva sempre che mi lascio vivere. Che non oso immaginare, che non costruisco. Che sono abituato a prendere quello che viene, poco importa se buono o cattivo. Io lo prendo, lo ammiro, appoggiato sulla mia mano, e poi lo lascio scivolare via. Niente diventa mai veramente mio, non divento mai realmente di qualcuno. Non dovrei nemmeno portare un nome, vorrei non avere un’immagine, un corpo. Non dovrei camminare, dovrei osservare immobile ed eterno l’avvenire delle cose.
L’unica cosa che importa ora è quello sguardo.
E F