Parliamo del primo assedio di Roma del 408 da parte dei Visigoti, conclusosi con il pagamento di un tributo.
La situazione era estremamente grave, non solo dal punto di vista militare ma anche morale: sebbene l’Impero avesse ormai rinunciato all’inviolabilità delle proprie frontiere e cercasse di integrare, piuttosto che respingere, i popoli barbari che le varcavano, nessuno aveva ancora seriamente minacciato Roma.
Certamente, la penisola italica non era nuova alla violenza portata sia da eserciti romani che da barbari: gli episodi più recenti erano stati il 260 d.C. gli Alemanni si erano spinti fino alle mura di Roma ma l’avevano ritenuta inviolabile (riuscendo poi a devastarla nei primi anni 2000); con più difficoltà, nel 271 Aureliano aveva sconfitto un’armata alemanna e gota a Piacenza, costruendo poi le famose mura aureliane. Era stato sicuramente un campanello d’allarme, ma era anche frutto del periodo di instabilità che era stato il III secolo e Roma non era stata seriamente minacciata dai tempi di Annibale e nessun esercito ostile vi era entrato dal 390 a.C. Roma aveva perso lo status di capitale, non era più la città più grande e ricca del mondo, ma rimaneva il centro morale della romanità, che da essa si irradiava nei tre continenti facendo conoscere ben oltre i propri confini politici la cultura greco-romana; forse l’Urbe non era più in una botte di ferro ma di certo sapeva di incutere ancora timore in qualunque esercito avesse anche solo pensato di avvicinarvisi.
Eppure, poco meno di 140 anni dopo l’ultima vera minaccia da parte di un esercito straniero, i Visigoti guidati da Alarico facevano molta più paura: non solo quei barbari erano stati in grado di sconfiggere i Romani sul campo, le loro aumentate capacità poliercetiche unite all’inefficace manutenzione della cinta muraria adesso minacciavano seriamente la stessa città e non solo il contado laziale. Era dal 211 a.C., ossia dal tentativo cartaginese di assedio, che Roma non si sentiva così in pericolo, abbandonati dall’imperatore chiuso a Ravenna e non potendo ricevere i rifornimenti via Tevere. Era una situazione tragica.
Racconta lo storico Zosimo, nel suo Storia Nuova (Historía néa), che il praefectus urbis Pompeiano, disperando di poter salvare la città senza dover pagare l’ingente tributo preteso da Alarico, incontrò due uomini dalla Toscana, due sacerdoti che gli assicurarono che la città di Narni si era salvata dall’assedio grazie ad antiche maledizioni che evocavano una tempesta di saette sul nemico e proposero di eseguire i riti di un tempo per salvare Roma.
Guardiamo alla situazione agli inizi del 408: l’Editto di Tessalonica aveva decretato che il cristianesimo niceno fosse la religione ufficiale dell’impero, impedendo qualsiasi altro culto pubblico; i “pagani” erano sempre più emarginati ma tale emarginazione non era totale né immediata, tant’è che lo stesso Zosimo, in Oriente, quasi un secolo dopo poté definirsi apertamente politeista e ricoprire importanti ruoli nell’amministrazione imperiale. Se sempre più cittadini si convertivano al cristianesimo, nelle zone più rurali le tradizioni erano dure a morire ed è nel solco di queste usanze vecchie di un millennio e forse anche più che si trovava la divinazione: faceva parte dell’esteso corpus di riti noto come Etrusca Disciplina, codificato in vari libri e importato direttamente dall’Etruria che per secoli influenzò la divinazione romana.
Ora, non sappiamo se oltre all’arte divinatoria gli Etruschi avessero esportato anche dei riti in grado di ottenere il favore degli dei e di ottenerne la protezione, ma a quanto pare l’idea non parve implausibile al pagano Pompeiano, che fu tentato dalla possibilità di poter leggere antichi testi in una lingua da secoli estinta (quando l’imperatore Claudio compose la sua opera perduta Tyrrenika la lingua era ormai moribonda), oscura ma veicolo di un incredibile potere magico. Pompeiano tuttavia faceva parte di una minoranza a Roma e quindi ne parlò con papa Innocenzo I: anche il patriarca di Roma, principale autorità cattolica d’Occidente, ebbe un tentennamento, probabilmente non insensibile al fascino che quei riti in un idioma misterioso avevano avuto sulla cultura popolare romana, gli accordò il permesso di tentare in privato. I sacerdoti, profondi conoscitori di quella disciplina, si opposero, sostenendo che solo le prescritte cerimonie pubbliche, con processioni e sacrifici, avrebbero sortito effetto.
Oggi alcuni racconti vogliono questi due aruspici post-litteram, relitti di un passato ormai sepolto, pronunciare le loro maledizioni nell’incomprensibile lingua tirrenica e constatare come neanche la magia dei loro antenati potesse funzionare, ma la vicenda narrata da Zosimo è molto più prosaica: non trovandosi nessuno in città disposto a presenziare a questi riti, i due pagani vennero messi da parte e ci si rassegnò a trattare con Alarico, per pagargli il tributo. Ciò comunque non salvò Roma, perché due anni dopo i Visigoti la assediarono e vi entrarono per saccheggiarla e nessuna preghiera o maledizione poté salvarla. La Città Eterna non si salvò, infine, e con essa crollò ogni speranza di salvare l’Impero d’Occidente.
Snorri Sturluson