Fa freddo in chiesa - riflessione sull'abitudine

Fa freddo in chiesa – riflessione sull’abitudine

CHIESA

Può un vescovo durante una noiosissima riunione per padrini farci riflettere sull’abitudine? La risposta è che sì, può.

Fa freddo e ho le mani in tasca in un posto dove non bisognerebbe farlo. L’atmosfera è di quelle asettiche per me, la cerimonia non fa breccia nella mia sensibilità, mi sento come un pesce fuor d’acqua mentre tutti muovono le labbra all’unisono e si piegano sui loro ginocchi ripetendo mnemonicamente pratiche e rituali anacronistici.

Mi guardo intorno silenziosamente, pensando ai fatti miei, ogni tanto vergognandomene. Poi, il vescovo comincia a parlare. E dice una cosa, fra le tante. Dice che gli uomini si accontentano, si abituano, si dimenticano. Gli uomini danno le cose per scontate.

1.

Drizzo le orecchie. Comincia a parlare di una famiglia, di una moglie e di un marito, di un padre e di un figlio, insomma, di rapporti umani. E li esplora con le sue parole, ci mette l’esperienza di ogni sua ruga e capello bianco, di una sua vita intera, con una cadenza e una verità che finalmente non possono essermi indifferenti.

Si chiede perché un marito si dimentichi di aver voluto bene alla sua compagna, perché non abbia come sua priorità quella di farla felice, perché le famiglie sembrano non funzionare più. E la colpa, secondo lui, sta nell’abitudine.

Ora il vescovo ha tutta la mia attenzione. Penso che abbia ragione. La novità ci esalta, ci rende vivi, ma poi non dura e ci appiattisce. Proprio come diceva qualcuno che solitamente non amava spendere buone parole per il genere umano: per noi uomini l’attesa del piacere è il piacere stesso. E questo perché siamo animali tremendamente stupidi, e facciamo esaurire talmente presto il piacere che siamo più estasiati durante l’attesa, rispetto a quando otteniamo il risultato voluto.

Un po’ come quando da piccoli desideravamo con tutti noi stessi il nostro videogioco preferito, o la chitarra, o il cellulare. E dopo che lo ottenevamo, ecco che subito volevamo qualcos’altro, bestie incontentabili all’ennesima potenza.

Non che le cose cambino quando cresciamo: in ordine sparso, vogliamo computer, macchina, soldi per l’aperitivo, la casa per l’università in centro, il libro che ci piace, il nuovo I phone, orari flessibili al lavoro, una tipa che non ci rompa le palle per i calcetti e per l’asta del fantacalcio il sabato sera, un patner che ci dica quanto siamo belli e bravi e via dicendo.

alt=i social network ci stanno alienando

E alla fine abbiamo tutto, ma non ce ne frega nulla, siamo già concentrati su cosa vogliamo dopo, e non su quello che abbiamo avuto prima. Consumismo? Mentalità occidentale? Certamente, anche questo è vero. Ma la responsabilità è dell’abitudine. E la cosa più avvilente in assoluto è che applichiamo la stessa regoletta nei rapporti umani.

2.

Insomma, ha ragione il vescovo quando dice che diamo le cose per scontate. Penso alla mia vita, al mio lavoro o ai miei genitori. A come do per scontato che tutte le mattine io abbia la fortuna di avere un posto dove lavorare, dove crescere e imparare, quando tanti sono a casa a sperare sul divano che accada qualcosa, come esista gente nel mondo che non possa mai scegliere tra la A e la B, e debba sempre accontentarsi della C. Mentre io non solo ho sempre potuto scegliere, ma raramente non ho avuto la mia A.

Penso a come i miei facciano sacrifici ogni giorno per me, per la mia serenità, e io nemmeno riesca a chiedergli come è andata alla giornata. Penso ai rapporti umani, a come vorrei dare importanza a ognuno di questi come se fosse il primo giorno. Penso a cosa mi manca, e mi odio quando riesco addirittura a fare un elenco delle cose che vorrei.

Perché di nuovo, non penso mai a quanto sia fortunato ad avere le cose che ho già: delle persone al mio fianco meravigliose, che mi vogliono bene, una famiglia tutto sommato amorevole e che per me ha fatto tantissimi sacrifici, e poi la mia saletta, la mia chitarra, il computer dove sto scrivendo, una ragazza che mi manda sempre il buongiorno, e via dicendo.

3.

Ma come fare a non dare la vita per scontata? Eccolo, il punto, e a toccarlo è di nuovo il Vescovo: vivere ogni giorno come se fosse il primo, l’unico, l’ultimo della nostra vita (lui parla di chiesa, io penso a Nietzsche, ma che importa, che vogliamo essere cristiani o diventare l’oltreuomo, il concetto è lo stesso).

È quello che il demone nietzscano chiede all’umile contadino. Che cosa faresti se questo momento si ripetesse all’infinto? Il contadino, un semplice uomo, sarebbe disperato anche solo all’idea. L’oltreuomo, no. Perché lui vive ogni attimo con intensità, passione, non dando per scontato nemmeno un istante della sua vita.

E una vita vissuta così, ben venga che ritorni all’infinito. (Laureati in filosofia, perdonatemi per aver riassunto anni di studio e dibattito in una frase da biscotto della fortuna).

Allora mi chiedo, che cosa farei se oggi fossimo l’ultimo giorno da passare con la mia famiglia, con la mia ragazza, con i miei amici, al lavoro? Come cambierebbe la prospettiva della mia vita? Quanto sarei più grato alla vita, e meno abbattuto di fronte alle difficoltà quotidiane, se vivessi davvero ogni istante con quell’intensità, senza mai dare per scontato nulla?

Insomma, siamo capaci con estrema facilità a dare tutto per scontato, ci dimentichiamo sempre di quanto siamo fortunati ad avere quello che abbiamo. Piccoli borghesi? Ragazzini viziati? Schiavi inconsapevoli dell’abitudine, del consumismo, di un sistema che nemmeno ci interessa decifrare?

Non lo so. Ma so per certo che se riuscissimo a sforzarci ogni tanto per ricordarci la sensazione di quella scintilla, quella che sentiamo quando ci rendiamo conto di essere fortunati, e riuscissimo a farlo ogni mattina quando ci alziamo e ogni sera quando ci addormentiamo… beh, credo che nel nostro piccolo saremmo persone migliori.

Se esiste una qualche chiave per la felicità, questa lo è senza ombra di dubbio.

Amen.

A cura di Lorenzo Martinotti

Musicista - scrittore - studente di lettere. Il resto conta poco.

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