Lunghi capelli neri corvini. Forme slanciate. Zigomi alti, quasi imperiali. Elisabetta Delle Coppole è la classica ragazza che si fa notare. In una folla spicca, con il suo passo deciso e pienamente a suo agio nella determinazione che in tanti troviamo solo quando siamo abbastanza mature per potercene fare ben poco.
Elisabetta si sveglia e cerca nella familiarità della sua stanza il suo cellulare sul suo comodino. Inizia a tastare la superficie e già in quel momento capisce che qualcosa non torna. Non è il freddo metallo, ma un legno, anche un po’ appiccicoso.
“Merda, allora è tutto vero”.
Inizia a ricordare, a mettere in fila i pezzi e gli attimi. La persona che dorme vicino a lei non è Andrea, ma Luisa. Non si trova nel suo appartamento in Porta Romana, ma vicino a Colonne. Sa benissimo che il suo cellulare non è con lei, non lo sarà mai più. Almeno, quell’iPhone specifico. A meno che non abbia voglia di andare a dragare il Naviglio Grande.
E allora, in quel preciso momento, inizia interrottamente a piangere. Un osservatore esterno, come noi in questo momento, farebbe fatica a capire se è un pianto di gioia o di dolore. Se sta piangendo anni di costrizioni, di desideri altrui, da cui finalmente si è liberata. Se sta piangendo per la paura di affrontare l’ignoto, se Luisa sarà in grado di starle vicino e sostenerla.
Si erano conosciute a un corso di scrittura creativa serale. Luisa è poco più bassa di Elisabetta e sarebbe la ragazza che tua madre squadrerebbe con uno sguardo misto fra preoccupazione e interesse. Detto così, è applicabile però al 90% del genere umano. Luisa invece è in grado di trovare l’aspetto nascosto delle cose. Fatto che ad un corso di scrittura creativa l’aveva subito posta in una posizione di vantaggio rispetto a Elisabetta.
Questo le aveva causato non pochi sentimenti contrastanti. Abituata a primeggiare, fece ciò che le viene meglio: si mise a imparare. Così le chiese di iniziare a fare i “compiti” insieme. Luisa abita in un appartamento con altre tre persone. Gli orientamenti ed i generi si sprecano, definiamola una realtà mista. A parte Marco, bianco, eterosessuale e con un gran senso dell’umorismo.
“Ma io, che ci faccio a Milano?” era la sua battuta ricorrente.
Una realtà senza un contorno preciso, senza dei paletti. Lontana mille anni luce dalla realtà ordinata, patinata, in cui vivevano Elisabetta e Andrea. Andrea era lanciata nella sua carriera di consulenza, aveva appena inanellato la seconda promozione. Elisabetta invece “faceva da portaborse” a un importante consigliere regionale, il che le garantiva un certo grado di libertà, non essendo vincolata da orari.
Elisabetta era donna, omosessuale e garantiva al suo datore di lavoro quell’aurea di “fuori dagli schemi ma in modo moderno e accettabile”. Una delle lunghe notti in cui con la scusa dei “compiti” Elisabetta passava il suo tempo con Luisa, Marco si era anche spinto a chiederle come mai si trovasse così bene lì.
Elisabetta non se ne era resa conto fino a quel momento, di quanto fosse se stessa in quel contesto così lontano dalla sua vita. Dalle piscine. Dagli aeroporti. Dalle storie. Dalle vacanze status symbol. Una prima crepa che le aveva causato una prima mezza crisi di pianto.
Elisabetta odia piangere.
“Le persone forti non piangono. Specialmente davanti agli altri”.
Ricorda lo sguardo fisso di sua madre mentre le diceva queste parole. Mentre suo padre guidava e stava in silenzio.
Così, mentre Marco prova a rincorrerla scusandosi e Luisa lo ferma dicendogli di lasciar stare, Elisabetta scompare. Era il 20 dicembre. Natale, la cena con i parenti. La Vigilia da Andrea, il Natale dai suoi. Capodanno con gli amici di Andrea. I suoi amici non erano riusciti a sfondare. Un po’ si vergognava di loro e dei loro “Capodanno in casa”. Così, ormai, da anni li evitava e viveva quella vita patinata a cui Andrea era abituata da una vita.
Finisce il periodo delle festività e ricomincia la vita normale. Basta una risposta a una storia, un abbraccio a Marco e viene riaccolta nella loro casa-comune. E torna a sentirsi “bene”.
Aveva passato una vita a ripetersi che questo era quello che desiderava. Anche quando sentiva la sua anima assiderarsi a riguardare i propri post su Facebook. Anche quando rivedeva le sue storie e sapeva che provava meno della metà delle cose che scriveva. Anche quando vedeva sorridere Andrea e sapeva benissimo che sorrideva perché il suo capo le aveva detto che era brava, non per il suo regalo di anniversario.
Un mantra, che ogni giorno ripeteva, per confermarlo e confermare a se stessa che quella era l’unica soluzione possibile alla sua vita. Finalmente avrebbe portato il riscatto alla sua famiglia, un ramo cadetto di una realtà piccolo borghese, che però fra sfighe e investimenti sbagliati, avevano perso quasi tutto, e quanto rimasto era quello che i suoi genitori erano riusciti a salvare dalle grinfie degli altri familiari.
Un mantra che ha smesso di ripetere ieri notte. L’alcool in quella occasione neanche c’era stato. Si era negata a se stessa per talmente tanto tempo, che era bastato un bacio rapito da Luisa per far cadere finalmente il castello di carta. La crepa aveva rotto quello specchio in cui ogni giorno Elisabetta si ammirava. Solo che non aveva capito che non era uno specchio, ma una porta. Verso tutto ciò che avrebbe voluto essere.
Ora però, la nostra Elisabetta, piange. Qui la storia potrebbe divergere. Elisabetta si trova con le macerie di ciò che è stata: l’ordine, la relazione con Andrea, la sua stessa carriera. Scrivere per se stessa le piaceva immensamente di più che scrivere per qualcun altro. Un tradimento può essere perdonato, un cellulare buttato può essere ricomprato. Basterebbe una mail per rassicurare il suo capo.
Ma interviene Luisa, che l’abbraccia.
“Ci sono. Lo faremo insieme. Anche se non ne hai bisogno, ci sarò comunque”.