Sono immerso nella mia città, grigia nelle sue piazze e nei suoi cieli, nei suoi imprevisti temporali che ne bagnano i mattoni dei tetti rossi, che come stelle sbrilluccicano immobili sulla collina verde e ridente, così perfetta che quasi sembra una cartolina quando il sole, nei giorni d’estate, mi brucia la pelle. Sono in balia del rumore sferragliante del tram arancione numero tredici, che attraversa la piazza grande e la percorre in tutta la sua irraggiungibile bellezza. Il suo frastuono mi è ogni volta più familiare, rimbomba dentro di me come un tenero ricordo materno che mi scalda il cuore, che mi intorbidisce i sensi col suo scoppiettante sfrigolio metallico.
Mi ci ritrovo, in questa città. Sono io, questa città. Sono i suoi palazzi simmetricamente allineati, sono i suoi alberi magri, sono ogni suo balcone bianco e marmoreo, ogni pietra graffiata che gli uomini appesantiti calpestano sul fare del più chiaro mattino. Sono la sua notte dorata e silenziosa, il suo lungo fiume, sono ogni sua bicicletta rossa e gialla e arrugginita, ogni suo giornale abbandonato al vento, ogni bicchiere vuoto e macchiato dalle labbra di una donna.
Inconsciamente levo gli occhi dai miei piedi e guardo in alto, verso le nuvole che bianche e vaporose muovono rapide verso le montagne, che mi ricordano l’aria fresca e inebriante di dove io sono cresciuto, di dove sono stato, di dove sarei potuto esser qualcosa di altro. Il silenzio piomba su di me, lo sento gravoso come un sasso, e come un fulmine mi si pianta in testa e riesco a sentire con le mie mani la pelle del mio volto solcata dai ricordi; mi pervadono la faccia come escrescenze di ogni attimo che ho colto, di ogni ritorno che mi ha morso lo stomaco, del dolore e della gioia, del dramma della mia intera, meravigliosa, vita.
Il tramonto, come un raro bagliore rossastro, mi fa trasalire. Sono in piedi e guardo attraverso i miei occhi affamati, scatto fotografie sfocate che solo dopo i recettori del mio cervello giudicheranno valide o meno. La città, ora, sussurra qualcosa al mio orecchio, il rumore roboante della gente che si affolla agli aperitivi, che esce dai negozi e tira giù le serrande, che col loro schianto mi fanno sprofondare nell’infinita angoscia del futuro, nell’incertezza che affonda le sue radici nel dubbio, e mi rende ogni istante più pronto, più vivo.
Sono immerso nella mia città, sono la mia città. So che posso, se voglio, fare qualunque cosa del mio destino, perché il mio destino non è altro che il suo destino, un opulento sacco di attimi mancati, un altrettanto copioso contenitore di istanti catturati. E davanti a me, danzano come comete tutti gli amori della mia vita, in un girotondo di fiamme che sento bruciare nella più intima e segreta cavità del mio cuore. Danzano i ricordi e le imprese, i dubbi e le certezze, il passato e il futuro, il male e bene. Danzano caoticamente, oscillano senza sosta, ed io sono ancora più meravigliato dal sole, enorme cerchio sanguigno e violento, che adesso si lascia andare dietro le sensuali colline, ora non più verdi, ma di un nero appassito che rinascerà ancora, e ancora, e ancora una volta, in eterno.
Io sono tutte le città del mondo, lo sento nel mio intorpidimento finale, lo sento come una scossa che mi percorre le viscere e mi ridesta dall’infinito sonno. E ora sento con delizia che qualcosa di nuovo è nato, qualcosa che dalle più remote profondità della terra mi è penetrato nell’anima, mi ha ridato la pienezza che ora non può che essere il desiderio oblativo di offrirmi liberamente in pasto al mondo, di farmi consumare dal deserto delle ombre, di farmi mangiare vivo dal coloro che lo vorranno. Ora, sotto le stelle immobili, la città si è arresa alla notte, sta silenziosa in agguato, è la pace dei sensi, è qualcosa di dolcemente rassicurante e terribilmente spaventoso.
Io sono tutti i monumenti del mondo. Io sono la Mole Antonelliana, che nella sua fierezza si innalza in favore della più vincolante delle libertà, che tende le braccia al cielo non più illuminato dalla fede, ma sepolcro dell’umanità, tomba della ragione. Quello che sento è una forte risata attanagliarmi la pancia, arrampicarsi sui miei polmoni, raggiungermi la gola e infine uscirmi dalla bocca. E ora, immobile nell’attimo inafferrabile di questa notte, non posso che ridere per tutto l’amore che provo per la mia vita, per la bellezza commovente e drammatica del mondo e delle sue forme.
Foto di Nicolò Ramella