Ricordo distintamente una delle mie ultime recite delle elementari. Mi sanguinava l’orecchio. Succedeva quando ero agitato. Facevo Babbo Natale. Non ricordo bene la storia, penso riguardasse degli animali, Babbo Natale e altro. Io ero solo preoccupato che arrivasse mio padre.
Salgo sul palco, lo vedo là, alto. Con quella cravatta blu. Ok, potevo entrare in scena. Un bambino cicciottello vestito di rosso e bianco.
Per me quel pezzo di stoffa è sempre stato un forte simbolo. Se la toglieva quando tornava a casa, ed un po’ si rilassava. Allentava il nodo, muoveva il collo e la appoggiava. Andavo ad abbracciarlo, perchè la giornata lavorativa era finita e poteva stare un po’ con me. Non che non fosse una persona austera, ma sapevo che quando la metteva la giornata era iniziata e lui andava a lavorare.
Pochi cazzi.
Passa il tempo e mi trovo ad essere un liceale semi-ribelle, che non capisce se è contro il sistema o gli piace la discoteca. Vengo eletto rappresentante di istituto in un modo che non mi è mai piaciuto molto. Ingenuo e accecato da quelle cazzate che possono fregare solamente un quindicenne, finisco a fare la festa di istituto (cosa che avevo detto di odiare fino al giorno prima) in un noto locale delle mie parti. Lì, trovo incravattati quattro pr del locale e mi viene un voltastomaco molto pesante. Un ragazzo coi capelli lunghi, totalmente fuori luogo nel suo essere impacciato e magro.
Il mio sentirmi inadeguato, l’aver tradito me stesso e chi si era sbattuto con me, tutto questo non per grandi battaglie ma per vedere dei ragazzotti della mia età in giacca e cravatta, manco fossimo in un rooftop party di una delle Big Four. Sarà un errore che ripeterò in altri tempi, ma è un’altra storia. Da oggetto di venerazione, diviene nella mia mente di adolescente quasi anarchico la personificazione di tutto ciò che è sbagliato: il fingersi ciò che non si è, l’atteggiarsi, il doversela tirare perchè è giusto così. Che poi era in parte quello che facevo io stesso.
A partire da quel momento ho sempre detestato il vedere quell’oggetto usato in momenti e modi inappropriati. Schiumavo quando venivo portato in feste dove era richiesto un abito “formale” e dovevo mettermi quel cappio al collo. Ragazzini che giocano a fare i grandi, che poi finiranno ad odiarlo, quell’orpello attorno al quale ora tanto si incatenano. Non ero esattamente in pace con me stesso e vedere la gaiezza con la quale giocavano a fare i grandi mi causava veramente conati di bile. Ho imparato, tempo dopo, che non c’è nulla di male. Che la loro cravatta era il mio chiodo: oggetti per sentirsi meglio con se stessi.
Passano gli anni e mi trovo ad essere un ventiquattrenne che ormai la cravatta l’ha messa un po’ di volte. In occasioni serie e meno serie, per cause che la meritavano e per motivi decisamente da basso ventre. Domani la metterò per lavoro. Io.
Un atto importante, quello di sapersi fare la cravatta. Qualche mossa e tac, eccola lì, fatta. Devo ancora imparare a mettermela per bene. Domani uscirà di casa un essere a metà fra l’adolescenza e l’essere un adulto. Con l’indipendenza economica ancora lontana, una laurea da prendere ed un sacco di sogni. Con la testa che in questo mese pensa tanto e cerca di trovare una lettura ad un anno che ancora non ho capito.