Esplorare quei tic che ogni tanto riaffiorano sulla superficie della memoria dal profondo del nostro inconscio, provare a fermare il tempo e i suoi odori, gusti e colori. “Mi ricordo” è tutto questo, e forse anche qualcos’altro.
Infanzia
Mi ricordo il cortile di quando andavo all’asilo. Per cominciare, era composto da una vasta parte erbosa in piano che ospitava una serie di giochi con maniglie e corde, scivoli e costruzioni varie, e che poi si perdeva in una discesa sconfinata che terminava in una fila orizzontale di alberi immensi, disposti lungo una ringhiera oltre la quale scorreva un torrente. Me la ricordo, quella discesa, mentre la guardo dall’alto dello scivolo di plastica rosso. La chiamavamo la discesa oscura, un luogo arcano e misterioso, uno di quei posti che se ci si allontanava troppo bisognava essere piuttosto scaltri per non farsi vedere dalle maestre, altrimenti sarebbero stati grossi guai.
Così, con gli altri bambini c’eravamo inventati un metodo tutto nostro: a turno, a uno di noi (decisamente il più sfortunato) toccava andare dalla maestra con i pantaloni tutti abbassati fino alle caviglie, doveva farlo tutto caracollante e con i gomiti alti, ancora meglio se frignando un po’ e cacciando qualche urlo qua e là; quel che bastava, insomma, per allarmare la maestra, che allora preoccupata correva verso il bambino singhiozzante per soccorrerlo nei suoi goffi tentativi di avanzare e asciugarsi le lacrime allo stesso tempo.
Il trucco stava tutto lì: infatti mentre il malcapitato, mortificato, fingeva con la maestra di non riuscire più a tirarsi su i pantaloni e si umiliava, mettendo in mostra di fronte alle bambine dell’asilo le sue gambe secche e magroline, ecco che noialtri, furtivi come una squadra speciale di ninja ben addestrati, correvamo giù per l’interminabile discesa e andavamo a giocare sotto le fronde degli alberi immensi del cortile.
Di quel posto ricordo lo scroscio dell’acqua, l’odore del muschio, le arrampicate sugli alberi, le corse scalmanate, il fiato che veniva a mancare, il senso di libertà addosso. Ma ricordo anche la paura, perché guai a restarci più del dovuto, si rischiava una punizione severa. E così le nostre spie, composte dalle bambine più carine dell’asilo (informatrici insospettabili, a cui garantivamo il primo posto alla fila della mensa, che voleva dire avere la fetta di pizza più grossa) avevano il compito di venirci ad avvisare ogni qual volta captavano un pericolo imminente.
Ma ciò che a un bambino può sembrare un segreto inviolabile, per un adulto spesso è solo un istante passeggero di benevolenza: così, dopo che le maestre avevano soccorso il poveraccio dai pantaloni abbassati, ci lasciavano comunque giocare un poco sotto gli alberi, quel che bastava per farci sentire esperti raggiratori di maestre, facendo finta di aver abboccato al nostro ingegnoso piano; dopodiché (venimmo a saperlo dopo che le nostre spie-bambine desistevano facilmente se interrogate) mandavano qualcuna di loro a dirci di venire via, che si doveva rientrare o che bisognava fare un gioco di gruppo.
Così ritornavamo nella parte in piano del cortile, sempre facendo attenzione a non farci vedere (un’inutile fatica dal momento che le maestre già sapevano, ma che rilasciava nei nostri corpicini una generosa scarica di adrenalina); e svelti svelti saltavamo fuori uno alla volta, cercando di mantenere un’espressione vaga e di circostanza, ma che il più delle volte era degna di un bambino che ha appena rubato i biscotti dal vasetto. Restavamo presto delusi dal fatto che no, non fosse ora di pranzo né un gioco di gruppo era lì pronto ad attenderci, ma conservavamo la nostra fierezza di fronte agli altri bambini, che sembravano guardarci come degli eroi. Per molto tempo non riuscii a comprendere come mai nessuna maestra si fosse mai tolta la soddisfazione di dirci la verità, di sciupare quel nostro segreto che come una scintilla viveva dentro dentro ai nostri occhi quando ci guardavamo, rientrati in classe, con tutte le ginocchia sporche di erba e fango.
Foto di Carola Perinotti