Ci sono poche anime oggi, tutti portano la mascherina, tutti si guardano come se fossimo amici nemici, fianco a fianco contro questo nostro nuovo nemico invisibile, al tempo stesso pronti a sbranarci l’un l’altro per vincere la paura.
Sono in mezzo a loro, sono uno di loro. Anche io, dopo mesi di clausura, sono qui a prendere un treno. Siamo vivi, e dimostrarlo ci fa sentire in colpa.
I ricordi dell’università che abitano la mia mente riaffiorano soprattutto quando sono su un treno, e oggi non fa di certo eccezione. C’è la solita sigaretta col fiatone e la bocca secca, fumata sulla linea gialla dei binari di Santhià. Ci sono i cinque canonici minuti di ritardo, che diventano eterni come quando a scuola la campanella non suonava mai. C’è la mia solita ansia di essere in ritardo, e poi come sempre sono 20 minuti in anticipo.
Eppure è tutto diverso. E a specchiarsi sui vetri dei vagoni fermi immobili non c’è più quel ragazzo che studiava Leopardi e sognava una casa sulle colline oltre il Po.
No, non sono qui per l’università. Non sto andando a Torino a dare un esame come quattro anni fa. Oggi il binario è il 3, non il 2. La direzione è nuova, ma non sconosciuta: Milano.
Cambiare vita, a volte, può suonare stimolante ed eccitante anche se ci spostiamo a solo un’ora e mezza da casa. Ed è così che forse ricorderò il primo giorno della mia nuova avventura: da solo, alla tanto odiata stazione di Santhià, con la camicia di jeans di mio nonno e qualche chilo in meno, ma una scintilla in più. Io che a gennaio avevo un contratto indeterminato e sognavo la convivenza, e ora sono un freelance senza certezze e tante aspettative, con poche cose che mi trattengono in un posto o in un altro.
E mentre Stazione Centrale è sempre più vicina e il treno non è mai stato così silenzioso e desolato, sento l’emozione di chi è fermo sul via e aspetta il colpo di pistola per (ri)partire a mille, con le braccia tese e ben salde e la testa bassa, quando ogni respiro è intenso e rimbomba nello stomaco. Sento la rabbia di chi ha dovuto lottare per l’accettazione. Sento la voglia di dimostrare qualcosa non più agli altri, ma a me stesso.
Ed eccolo che prende forma: il ricordo di una lezione su Primo Levi, il professore che pronuncia una parola che ora riemerge dalle profondità della mia mente: omeostasi.
La tendenza naturale al raggiungimento di una condizione di stabilità, che accomuna tutti gli organismi viventi.
Stabilità, equilibrio. Ecco, un’altra sigaretta di troppo. Gli avvisi, le distanze di sicurezza, l’acqua fresca, il rumore delle valigie, la solitudine, Milano caos e ordine, Milano gambe e coraggio.
Prossima fermata stazione Centrale. La mia omeostasi comincia quando poggio il piede per terra con lo zaino in spalla. Scendo dal treno, respiro a pieni polmoni. Dopo tre settimane, finalmente, sul mio volto compare un sorriso.
Milano sono tutto tuo.