Nel buio era visibile solo il profilo del letto ed il vago chiarore della trapunta beige, il resto della stanza era immerso in una fredda oscurità; dall’angolo più lontano della camera un respiro pesante era l’unico rumore percepibile.
Erano ormai venti minuti che passava nella stessa posizione: in ginocchio con la schiena ritta, tutti i muscoli del corpo tesi e irrigiditi, pronti a ogni singolo cambiamento nell’aria. Pian piano con il passare dei minuti gli occhi si andavano abituando al buio e, oltre il contorno sbiadito delle gambe del letto e la coperta penzoloni, cominciò ad intravedere la sagoma del tappeto a pochi passi da lei; a quella vista, il freddo delle mattonelle su cui poggiava in parte si fece più intenso e brividi le corsero lungo tutto il corpo.
Passò il peso da una gamba all’altra e nell’impercettibile spostamento il parquet sotto di lei scricchiolò cupamente rimbombando per la stanza. Si immobilizzò immediatamente, le orecchie tese a captare qualche movimento nell’ombra, ma il respiro continuava a raspare l’aria con sbuffi cadenzati, intervallati ora da qualche rantolo.
Rilassò il corpo lentamente e trattenendo il respiro strisciò fino al tappeto con lenti gesti misurati; ogni cigolio del pavimento in legno la faceva fermare con una gamba o con un braccio a mezz’aria per istanti interminabili. Posò il corpo sulla ruvida superficie in lana, il tessuto le pizzicava le guance, ma poté finalmente allentare la tensione sui muscoli indolenziti.
Rimase stesa sul fianco a fissare il nero fitto del sottoletto, una spelonca tetra da cui arrivavano a intermittenza schiaffi di gelide correnti d’aria, trasformarsi in un caleidoscopio di luci e baluginii colorati e sfocati che le piroettavano davanti in una danza incessante. Provò a chiudere gli occhi, ma, nella completa assenza di luce delle palpebre serrate, quelle immagini luminose apparivano ancora più sgargianti, ferendole l’immaginazione; in una sequenza di scatti, come se qualcuno stesse facendo scorrere delle diapositive sullo schermo nero della sua mente, forme geometriche e disegni grotteschi si avvicinavano sempre di più al suo viso e vi aleggiavano davanti in flash psichedelici.
Riaprì gli occhi di scatto e volgendo lo sguardo verso l’alto vide una sagoma bianca, spettrale, incombere su di lei; il cuore le accelerò convulsamente mentre il terrore le serrava la gola e stringeva nella sua morsa ogni centimetro del suo corpo.
Il brontolio di sottofondo era cessato; sentì un dolore lancinante alla testa e il buio le vorticò tutt’attorno, la stanza girava e lei ruotava con lei, o forse, viceversa; non riusciva a capire cosa stesse accadendo, riusciva solo a sentire il dolore spandersi e più tutto girava, più cercava di resistere alla forza che la trascinava verso l’alto e la faceva girare e girare, più il dolore si faceva acuto e penetrante. Cercò con le mani a tentoni la cerea creatura che l’aveva attaccata e ora non la lasciava andare, ma anzi la scuoteva con forza brutale sconquassandole le membra, le ossa; si ritrovò ad avvinghiarsi con le mani a qualcosa di morbido e caldo a cui non riusciva a dare né una forma, né un inizio o una fine, ma piacevole al tatto, e conficcarci le unghie, strattonare disperatamente per liberarsi dalla presa.
Lanciò un urlo strozzato, il petto le si alzava e abbassava alla ricerca affannosa d’aria. La fronte e il collo erano madidi di sudore, le mani ghiacciate.
Aveva di nuovo fatto quell’incubo; ogni volta le appariva sempre più vivido, così concreto che al risveglio le sembrava di sentire ancora nelle orecchie il ronzio penetrante di quel respiro e le mani che le afferravano i capelli e strattonavano fino a sollevarla da terra. Esattamente come quando era bambina, il ricordo delle punizioni inflitte da sua madre la lasciava esausta e svuotata, come se a forza di scuoterla anche le sue emozioni fossero cadute via una ad una.