La Genoveffa era nata in campagna, nelle colline aspre dell’Emilia, parlava poco italiano e non le piaceva partire. Aveva paura che nessuno passasse la polvere sopra la credenza in cucina, e le foto dei nonni non riusciva mai a portarle tutte con sé.
A otto anni ha lasciato Ferrara per Milano, a quattordici Milano per Torino, a venti Torino per Alessandria, e a trenta Alessandria per Cuneo.
Aveva gli occhi di chi ha già visto troppo ma mai abbastanza, curiosa di capire come il mondo riesca ancora a girare.
A chi le chiedeva – Come sta signora?-
Rispondeva – Signora è quella vacca di tua mamma!-
Era acerba, come le pesche che mangiava, dura come i tronchi di pino che d’estate rompeva a mano per scaldarsi d’inverno. Non aveva bisogno di nessuno, né di amore né di compagnia, né di figli, né di nipoti.
– Sono sempre stata più amata di quello che ho amato –
Alla Genoveffa mancava il respiro ultimamente ma lei diceva che non era niente, era l’Ansia.
“È una malafemmina, gialla come le scarpe di chi va in chiesa senza prendere la comunione, e arriva la notte come i ladri che ti addormentano. Ma lei non ti fa dormire, ti toglie il fiato, spezza le gambe e contorce lo stomaco. La mia povera mamma ce l’aveva, giorno, notte, anche a colazione. Si fermava in mezzo ai campi e respirava lungo. È la mia eredità”
Il martedì andava in balera, era bellissima, giunonica, si truccava, andava dalla pettinatrice, tirava fuori il vestito migliore e la pelliccia di visone, e chiamava il figlio della sua vicina di casa. Lui, puntuale, alle sette e mezza la portava e alle dieci era fuori ad aspettarla.
Una notte la Genoveffa l’ha chiamato alle nove per dirgli di non preoccuparsi di tornare a prenderla.
Quella sera fece l’amore con Gianni, un bel tipo di Mondovì, elegante, un signorone.
La mattina si svegliò al suo fianco e lo fece alzare, gli allungò un assegno e lo liquidò con un: “Mio padre diceva sempre che costano meno quelle che devi pagar subito che quelle che devi pagar dopo”
Si dicono tante cose sulla Genoveffa: che fosse un uomo travestito scappato dai lager, che la notte andasse lungo la provinciale per incontrare il suo Richard Gere. Le vecchie del paese continuavano a dire che non ha mai imparato ad amarsi, lei le guardava da lontano e ci rideva su.
-Non ho mai capito perché hanno inventato i bagagli a mano, cosa ci sta qui dentro? Nulla. Non posso portare nulla-
-Nonna, sbrigati, perdiamo l’aereo..-
-Ma chi vuole prenderlo quest’aereo? Chi? Sai, Nini, a me partire non è mai piaciuto, mi manca il fiato, e mi servono le goccine. Prima di andare via non riesco mai a dormire: e il gas da chiudere, e il letto da rifare, i piatti da lavare, il gatto da portare in pensione, e poi chi la passa la polvere? E adesso cosa faranno qui?-
-L’ha comprata una coppia di ragazzi giovani di Bologna, lui è stato trasferito. Sono molto carini, educati. Respira, e andiamo-
-Io non vengo, non posso. Non ho ancora finito, mi sento che manca qualcosa..-
-Nonna, ti prego-
-Straccia il mio biglietto, scendo tra una settimana e me lo ricompro, resto qui fino a quando non arrivano-
-Nonna, dobbiamo andare-
-Non posso partire, senti… Mi manca già il fiato-
-Goccine?-
-Dammi-
La Genoveffa era così.
-Sai Nini cosa faccio? Lascio le chiavi di riserva nel vaso della Donatella che intanto non se ne accorge così se danno il bianco e mi spostano la credenza posso venire a vedere-