Salvador Dalì - TheCio

Salvador Dalì

Quello che vedo sono i miei piedi, i miei piedi che si muovono apparentemente scivolando sull’asfalto, senza toccarlo, come sostenuti da sottilissimi cuscinetti d’aria.
Ma io so che non è così.
C’è una parte lontana della mia mente che mi suggerisce che siamo nella vita reale, e che nella vita reale i piedi poggiano sempre per terra, e che non è possibile spostarsi calpestando l’etere.
So che è così, eppure mi riesce difficile crederlo.
Continuo a guardare in basso e a camminare sempre più veloce finché sono colto da un attacco di vertigini, tutto inizia a girare vorticosamente e il sopra diventa sotto e non distinguo più la destra dalla sinistra e mi sembra di cadere a terra contro il marciapiede minaccioso, ma no! mi appoggio al muro di un palazzo, stacco a fatica gli occhi dalle scarpe, guardo in alto, il cielo! Respiro.
Pian piano il senso di vertigine sparisce e il mio cuore torna ai suoi battiti normali. Deglutisco e mi guardo intorno.

Sono in un acquario.
No, so che non è possibile. Eppure sembra così vero.
Tutto è tremolante e vagamente indefinito proprio come se fosse immerso in acqua; i suoni sono talmente attutiti che riesco appena a percepirli; sento la pressione di metri e metri di acqua sopra alla mia testa. I miei movimenti sono rallentati.
Mi guardo le mani, come aspettandomi di vederle palmate, e invece sono normali, normalissime mani umane ed asciutte e io sto respirando e non ci sono pareti di vetro a chiudermi perché questo non è un acquario.
Non è un acquario.
Chiudo gli occhi e ci passo sopra le dita. Improvvisamente sono stanco. Devo andare a casa, mettermi a dormire, una tazza di the forse, e tutto tornerà normale.
Passerà.
Passerà tutto.

Riapro gli occhi, ma la sensazione non mi abbandona. Il sole slavato che sta finendo di sgocciolare luce sulla strada, i palazzi scuri ritti in fila fino a dove arriva lo sguardo, i passanti che passano noncuranti, diretti chissà dove, niente di tutto ciò riesce a comunicarmi una sensazione di realtà. Sono ancora prigioniero della mia mente che, per qualche crudele scherzo, mi sussurra che tutto questo non è vero, è surreale, è onirico, e per questo mi sento come in un acquario o in un sogno, per questo mi sembra che i miei piedi non tocchino terra e la mia mano appoggiata al cemento del palazzo non percepisce nulla.
Non è la prima volta che mi capita.
A volte perdo il contatto con l’esterno e non riesco più ad aggrapparmi alla realtà materiale delle cose, la veridicità del momento che sto vivendo mi sfugge. Inizia sempre così, con un crescente sentimento di alienazione, poi una forte vertigine che mi costringe a chiudere gli occhi, e, quando li riapro, l’acqua.
Immerso nel mio acquario, fluttuo e mi sento smarrito, privati del peso i miei movimenti e della sensibilità la mia pelle, mi interfaccio con un mondo di plastica colorata messo lì apposta per far contenti i pesciolini.
Ma io sono un pesciolino molto furbo, e lo sento che c’è qualcosa che non va; è come se iniziassi a percepire delle frequenze negative, a respirare un’aria diversa, stantia, le mie cornee sono talmente abituate ad essere sempre tese all’oltre che notano subito l’artificiosità di quello che mi sta intorno.
Ed è questa la parte peggiore: la scoperta delle pareti di vetro. L’angoscia di trovarmi racchiuso in un inganno senza sapere come tornare al mio mondo; l’incapacità di riaggrapparmi alla realtà e di restarne ancorato.

Guardo di nuovo tutto ciò che ho attorno, questa volta con odio; vorrei che questo mondo fantasma smascherasse la sua ipocrita falsità, vorrei una prova del fatto che non è reale, che non è il mio mondo, ma solo uno schifoso imbroglio. Se è la mia mente a montare queste impalcature, allora la mia mente può anche distruggerle e rendermi libero, libero di guardare al di là.
Ed ecco che sembra succedere davvero, ecco che davanti ai miei occhi tutto sembra pian piano sciogliersi, ripiegarsi su sè stesso, ecco che questa scenografia dell’inganno perde forma come se fosse stata privata della sua spina dorsale, come se fosse cera sciolta dalla fiamma di una candela.
I passanti si rivelano per quello che sono: manichini spogli. Manichini di legno senza braccia nè gambe, ciechi poiché nessuno si è preso la briga di disegnare occhi sui loro volti annoiati, manichini senza altro scopo se non quello di confondermi.
I palazzi si sciolgono, si piegano in avanti, cedono docilmente senza opporre resistenza; gli scheletrici rami degli alberi si contorcono sino a consumarsi e cadere per terra, sottili come capelli; il cielo si squarcia, si apre in due come la buccia di un arancio, come un sipario strappato, aguzzo lo sguardo e il petto mi si riempie di sollievo. So cosa c’è dietro, ancora in parte nascosta da questa odiosa messinscena.
Guardando questo lento sfacelo mi sento soddisfatto: so che non è la mia realtà a colare inerme a terra, ma una finta creata da non so chi per ingannarmi, e la mia realtà ricompare dietro queste macerie, splendente, solida e perfettamente, assolutamente, incontrovertibilmente credibile.

Sorrido del mio sorriso più radioso.

La sensazione è scomparsa.

Cecilia Maiorana

A cura di Ospite

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