Bianco. Muovo io. Nero. Muovi tu.
Il gioco degli scacchi mi ha sempre intrigato. Non sono molto bravo ad architettare le mosse nella mia vita, figurati in un gioco competitivo. Mi faccio prendere dalla foga della partita, dall’impassibilità dell’avversario e prima che me ne accorga mi sono fatto fottere la regina, un alfiere e la torre.
E qualche povero pedone sfigato, ma a chi gliene frega mai qualcosa di quelli?
Decidere il percorso, la strategia, non fa parte della mia personalità. Mi butto, agisco. Spesso senza pensare alle conseguenze. Altre volte lascio, volontariamente o no, scadere il tempo e concedo.
Che poi uno si stressa tanto per vincere, portare a casa qualcosa. Ma qualcosa cosa? A chi? Mostrare a se stessi che si è stati capaci di porre sotto scacco il re avversario? Si tratta di una prova di intelligenza o di arroganza?
Ci portiamo dietro questa volontà di dimostrare, fare il punto. E sbagliamo. Quello che conta e importa è la partita. Lo scontro delle menti. Il vedere la mossa prima, fare la propria sperando di aver capito e non frainteso quella dell’altro giocatore.
Da avversario a giocatore di una partita a due. Dove l’intero universo scompare per un quantitativo di tempo variabile, senza lasciare traccia. Tac, tac, si muovono le figure sulla scacchiera. Il cavallo, il re, il pedone che diventa regina e poi viene mangiato di nuovo dalla torre.
Ci si guarda negli occhi. Contenti di passare questo tempo insieme, condividere quel breve (o eterno) ricordo per sempre. Il risultato scomparirà raschiato via dalle sabbie, la memoria della sfida no.
Ed è bello che la partita si concluda. Perché questo vuol dire che se ne può aprire un’altra. Con la stessa persona, con un’altra persona. Io di solito spendo il mio tempo con chi mi piace spenderlo.
E tu?
Sotto la pioggia, con il sole, senza parole, con gli sguardi. E se perdere fosse la vera vittoria?