Una volta c’erano due guerrieri. Per caso si trovarono a combattere nello stesso reggimento. Entrambi simili e dissimili. Volevano andare oltre, capire le ragioni del conflitto. Iniziarono come semplici soldati. Pian piano, combattendo, razziando villaggi e distruggendo vite altrui, scalarono i ranghi del loro esercito.
Prima che potessero capire cosa fosse loro successo, si trovarono ciascuno di loro a comandare una propria compagnia. Uno dei due, il più alto, era moro con gli occhi verdi. L’altro, più basso, biondo e con gli occhi azzurri. Il primo era sempre stato il migliore, in tutto. Nella strategia, nell’ordire i piani, nel sedurre le donne. Non vi era un ambito in cui non superasse il secondo.
Al primo, che per comodità chiameremo il Moro, tutto questo pesava. Sapeva di esser stato più fortunato, che le sue qualità gli erano state regalate dal caso. Nulla più. Cosa doveva fare però? Non sfruttare i propri talenti? Lasciarli lì, non curante di quanto in alto potesse portare lo stendardo del proprio esercito?
Il secondo, il Biondo, fingeva di accettare questa sua fortuna. Ma, quando l’alcool scioglieva le lingue, trovava sempre quel particolare in cui il Moro non era stato perfetto. Quel piccolo errore, quella mancanza. La sua supponenza, arroganza, il modo tremendo in cui metteva le strategie ovvie di fronte ai loro superiori.
“Scusate, ma non sarebbe meglio che la cavalleria si nascondesse in questa radura?” Talmente ovvio che erano sempre messi in imbarazzo dalla sua abilità di vedere la battaglia prima che essa accadesse.
Il tempo passava e il Biondo si era fermato. Vuoi per pigrizia, vuoi per il troppo alcool, ma l’esercito non si fidava più di tanto. Una compagnia, nulla più.
Il Moro. Capo di un reggimento. Ammesso a parlare in modo diretto con il generale.
Una sera però il Moro ed il Biondo si incontrano.
“Che fine ha fatto il nostro sogno di portare pace in questo mondo?”
Il Biondo stava intagliando una piccola statua.
“Dovresti dirmelo tu, visto che parli sempre con il generale.”
“Credi che non rimanga sveglio la notte? Con che arroganza ritieni che non sia profondamente turbato da tutto questo? Sono dieci anni che siamo in guerra. Nulla è cambiato. Ogni giorno si combatte. Uomini e donne muoiono. Noi avanziamo e loro?”
“Noi?”
“Senti. Te ne ho parlato più volte. Se solo la smettessi di avere l’alito che odora dalla mattina alla sera, forse verresti preso più sul serio.”
“Vattene.”
Era la quindicesima volta che il Moro affrontava questo discorso con il Biondo. Se da una parte nessuno aveva ancora capito come questo formidabile esercito non avesse posto fine a tutti i conflitti, dall’altra vi erano delle regole molto rigide. Donne, alcool, sostanze psicotrope, eccessi in generale. Nessuno dei più alti ranghi, uomini o donne che fossero, era indulgente con se stesso. E per questo, proprio per questo, poteva chiedere alle proprie truppe di non esserlo.
Il Moro ricordava con piacere le ore passate a discutere con il Biondo. Entrambi volevano la fine della guerra, solo che il primo era disposto ad arrivare al proprio fine con qualunque mezzo, il secondo no.
“No, non possiamo comportarci in questo modo. Non saremo mai parte del consiglio stretto, il generale non ci ascolterà mai. Noi siamo figli di nessuno.”
“Finchè non daremo dimostrazione che due figli di nessuno possono raggiungere le vette più alte, il generale non ci darà mai ascolto.”
Metodi diversi, stesso fine. Secondo il Moro era necessario prendere la situazione in mano, secondo il Biondo sarebbe dovuto partire dalla massa dei soldati. L’enigma eterno. Il Moro si sentiva in imbarazzo. Sapeva che il Biondo aveva ragione. Sarebbe stato più bello, più etico. Ma il Biondo non sapeva. Non aveva fermato stupratori, ladri e assassini. Non si era messo ogni notte a vagare per le città conquistate, disciplinando anche con la misura finale tutti i trasgressori. No. Lui si sollazzava. Inseguiva le paesane. Beveva. E quando non beveva amava parlare di “cosa avrebbe fatto lui”, di “eh ma non capite quello che voglio dire”. Il Biondo, proprio quello che soffriva per la pesantezza del Moro, non poteva evitare di non esserlo con chi gli era vicino.
Più scalava le posizioni, più abusava del suo potere. Mentre il Moro si limitava a vivere il proprio impiego come temporaneo.
Il Moro ed il Biondo. Amici da una vita. Fratelli di sangue. Di idee. Non nella realtà però. Tristemente, il Moro se lo sentiva dentro che avrebbe dovuto porre fine a questo rapporto. Che a lui piaceva avere nel Biondo un qualcuno sempre minore a lui in qualcosa. Era stato avvicinato da diversi ufficiali, uomini e donne. Tutti uomini e donne nettamente migliori di lui. Ma li aveva sempre rifiutati. L’amicizia di chi gli era pari, o peggio, superiore, lo portava a guardare dentro di sé e a tornare a essere quel giovane insicuro. Non grato per le proprie fortune, ma pauroso. Non conscio dei propri mezzi, ma pieno di sensi di colpa per averli.
Fino a quel giorno.
Il Moro sbagliò. Per la prima volta. Di cinquecento uomini, ne rimasero la metà. Un errore di calcolo. Pensava che il nemico si fosse totalmente ritirato. Non aveva mandato nessun esploratore a controllare la posizione. Non aveva calcolato la disperazione degli ultimi difensori di quel regno infimo, che per caso si era trovato sulla strada dell’esercito.
Il generale non volle la sua testa.
“Ah, ecco. Sei umano anche tu, infine. Ne sono contento.”
Il Moro ci mise mesi a capire quelle parole. In ritiro auto imposto, si allenava tutti i giorni a diventare più forte.
In questi giorni, il Biondo non venne a visitarlo. Voci gli giungevano che “Eh, ma io ve lo avevo detto. Tanto sicuro di sé, ma resta un patatone.” “Eh, sapete, ne abbiamo passate tante insieme, io che lo conosco sapevo che prima o poi avrebbe fallito. Evidentemente più di così non può arrivare.”
Dopo tre mesi di duro allenamento, il Moro guardò il Biondo. Gli bastò quel sorriso di pietà misto a finta tristezza per dire queste parole.
“Fratello. Abbiamo combattuto e versato sangue. Io a te ho dato l’anima. Tu hai approfittato del mio unico momento di debolezza per svilirmi. Fratello, non siamo più fratelli. Nulla ci lega. Il passato passato insieme a combattere il nemico, le ore spese a discutere, gli allenamenti. Serberò tutto come un caro ricordo del te che eri, o forse del te che pensavo che fossi. Ho sempre creduto che tu potessi migliorare. Guardami.”
Il Biondo teneva gli occhi fissi a terra.
“Guardami! Sono divenuto più forte. Sono pronto a portare i doni che il fato mi ha concesso. Non ho intenzione di sentirmi in colpa per essere stato baciato nella culla. Questi muscoli, che tanto facilmente mi vengono, nascondono ore di sudore. La mia abilità con la spada, benché sia portato, proviene da centinaia di ore di allenamento. La mia strategia? Notti insonni a valutare le centinaia di variabili. Il mio successo con le donne? Dalla mia non dipendenza da nessun altro se non da me stesso. Uomo, se tu aspiri a migliorare, sai come fare. Ma ora, non ci sarò più io al tuo fianco. Perché ho bisogno di stare con chi è migliore di me, anche se ho paura.
Tu non sei più un guerriero. Sei un semplice esecutore di vite altrui.
Non credo tu possa cambiare. Alla fine nei panni di chi ha mille scuse, ti ci sei sempre trovato bene.”
Così finì la storia dei due guerrieri.
No. Non vi è una lezione, una morale. No. Il Biondo non andrà a salvare il Moro nel momento del bisogno, sarà qualcun altro. Nemmeno il Moro tornerà del Biondo per riaverlo nella propria vita. Come si sono conosciuti, si sono salutati. Incrociandosi da sconosciuti. Centinaia di volte.