1.
«Luce rossa e profumo di miele. Questo potrà andare». Una scelta sicuramente dettata dal freddo che tirava, e che mi penetrava sotto la giacca, fino alle cavità dell’ombelico e poi risaliva, pungendomi il collo appena sbarbato. Entrai solo con l’intenzione di ammazzare il tempo e bere qualcosa di caldo. Così mi misi a sedere al tavolo che mi sembrava andar bene, con la candela accesa al centro, mentre le luci che venivano proiettate sul pavimento erano verdi, ora gialle, poi di nuovo rosse. Che roba anni ottanta.
La mia scelta, tuttavia, si rivelò subito quella giusta. Per prima cosa, ero lontano dalla porta, e così potevo evitare così che ogni cliente, entrando, portasse con sé l’aria fredda che c’era fuori, e la facesse arrivare fino ai miei piedi. Poi, a dire il vero, il tavolo era davvero suggestivo, e questo non solo per la candela accesa al centro che danzava debole, ma anche per tutta la cianfrusaglia vintage che poggiava sulla mensola a fianco. Da sinistra a destra: una macchina da scrivere, un mappamondo in legno, una TV Miver da 9 pollici con le strisce rosse laterali, proprio come quelle di una vecchia auto da formula uno.
La tisana la scelse il cameriere, probabilmente era l’unica che aveva. E così cominciai a mettermi al lavoro. Dovevo pur ingannare l’attesa. Quindi presi il computer. Era tanto che non lo facevo, era tanto che non scavallavo quel vortice di paura. Era tanto, in fondo, che non smarrivo me stesso. E chissà, fra un’ora, che ne sarebbe stato di me.
2.
La scelta di bere di fretta e furia prima di cacciarmi al volante non fu per niente una buona idea. Una nausea rivoltante ora mi mordeva lo stomaco, me lo torceva, facendomi venire voglia di vomitare. Fu il freddo, tuttavia, a farmi salire il primo conato di vomito. Così mi cacciai nel primo bar che trovai sulla strada. Appena entrai, due cose invasero i miei sensi: la luce rossa e il profumo di miele. Che frociata, pensai.
La musica che c’era era stile disco dance anni ottanta e il basso era slappato; insomma, la nausea aumentava, così pensai di scegliere un tavolo, e di rintanarmi in un angolino in fretta e furia. La faccia del cameriere fu decisamente la goccia che fece traboccare il vaso: sbarbato e liscio come una saponetta, con dei brufoli da adolescente che stridevano con le sopracciglia così folte da sembrare finte. Ecco, ora lo sapevo. Dovevo bere qualcosa.
Un’ora di attesa. Tre vodke lisce. E mentre il tempo passava, mandavo giù e cercavo di non pensarci, di non pensare al motivo per cui ero lì. Era davvero finita? Ero davvero arrivato a tanto?
3.
Luca entrò nel primo bar che vide sulla sinistra. Controllò l’insegna e spiò i tavoli da fuori. Gli era sembrato ok, così aveva tirato la maniglia della porta e camminato lento verso l’angolo in fondo, poggiando la borsa vicino al primo tavolo lontano dalle persone.
La sedia scricchiolò e quel rumore lo fece preoccupare, come se fosse stato svegliato da un coma, come se solo in quel preciso istante, avesse realizzato il motivo per cui si trovava lì. Pensò a che birra ordinare, poi virò su una tisana allo zenzero.
Si guardò intorno per studiare meglio il posto in cui era capitato, e due furono le cose che lo colpirono: la luce rossa e il profumo di miele. E null’altro.
La tisana riportò la sua mente alle sere in cui dormiva dalla nonna, ma anche ai tempi dell’università e alle nottate di studio. Quei profumi gli ricordarono anche un’altra cosa, ma non fece in tempo a immobilizzare il ricordo, che se n’era già andato.
Davanti a lui stavano una coppia e un ragazzo che gli somigliava. Decise di studiare prima lui: capello corto, montone e computer. Anche lui aveva un montone e un computer dentro la sua valigia, così decise di tirarlo fuori e metterlo sul tavolo, come per dare un senso alla sua permanenza in quel posto, per dimostrare a se stesso qualcosa che ancora non gli era chiaro. La coppia, invece, non era per niente piacevole da guardare. E questo perché i due erano piuttosto banali. Un gin tonic lui, un mojito non finito lei. E poi lei che gli saliva sulle ginocchia e giocava coi baci, una carezza sul fianco, una parola detta all’orecchio, uno sguardo di troppo al telefono.
Fu curioso osservarli e non riuscire a decifrare se quello che provava era un sottile disgusto, o invece un naturale senso di invidia. Non lo capì mai, Luca, neanche le due ore successive, quando in tram ripensò a quello che aveva appena fatto, con la testa fra le mani, e lo sguardo fisso sul pavimento sporco di neve e di sale.
Lorenzo Martinotti