Contro l’interpretazione della dimensione storica esistenziale dei giovani si erge un maestosissimo muro incomprensibile e noioso, che se nasce nella dimensione interiore degli ideali e delle idee, si palesa in quello che tutti noi comunemente chiamiamo: moda.
Che i gap generazionali ci siano sempre stati, e che ogni generazione si ingegni per trovare il modo di innovarsi e rinnovarsi ripescando dal cilindro grandi classici come il pantazampa, il giubbotto di jeans o gli anfibi, questo si sapeva. Ma quando osservo i giovani (quelli proprio giovani, che se bevono il sabato sera la domenica non ci hanno male alla schiena porcacciaboia) non riesco a non chiedermi perché portino quelle scarpe rosse monocolore, quelle tute/maglione/qualsiasicosasiano che arrivano alle ginocchia, quei risvoltini arrotolati fino al polpaccio anche a dicembre quando le doppie calze ti fanno cristonare.
Ok. Tolto il fattore puramente estetico, esiste un motivo per cui ci si veste così? Perché quando penso a noi, che il giubbotto di pelle lo portavamo perché ci piacevano i Clash e non volevamo mischiarci con quelli della discoteca, che ci facevamo stringere i pantaloni dalla nonna perché “è Rock’n’roll, fidati, anche gli Strokes ce li hanno così”, la mia risposta è sì: dietro alla moda un motivo c’è sempre stato. Perché noi dietro alle borchie, ai cappotti british, alle t-shirt dei gruppi metal, agli stivaletti alla Beatles, alle Clarks e ai capelloni ci vedevamo una ragione di vita. E mai avremmo indossato vestiti a casaccio come questi nuovi figli dell’unico vero movimento giovanile rimasto: il nichilismo.