Settembre arriva subdolo ed in silenzio. Non lo noti ma in meno di un battito di ciglia si è infilato in salotto, ha fatto cadere i volumi dalla libreria e ti ha svuotato la dispensa. Mangia e divora tutto, ingrassa e pian piano occupa sempre più spazio; infila le sue mani gelide sotto la tua maglietta finchè ad un certo punto non puoi più farci nulla: devi ammettere che è arrivato settembre. E ciò comporta molte cose.
Gli universitari abbandonano con una marcia cadenzata le aule studio e si avviano verso le sedi d’esame. Gli innamorati si scambiano gli ultimi baci sulla spiaggia e infine tornano nei labirinti grigi di Milano. Non è vero che Settembre è il lunedì dell’anno, come tanti dicono. A me sembra più che altro il tramonto dell’adolescenza, quel periodo della vita quando devi cominciare a preoccuparti seriamente del domani. Ogni estate, torniamo adolescenti e sul mese arancione (perchè settembre ha quel colore) la giovinezza ci lascia, anno dopo anno.
Io questo settembre cammino, continuamente. Siamo appena ad un terzo del mese e già ho il fiatone, ma non mi domando troppo e vado avanti. Se mi fermo avrei tempo sufficiente per mettere in dubbio tutte le scelte maturate finora e questa è una cosa che non voglio fare.
Nell’attimo immobile di sospensione del corpo tra il piede sinistro e il destro metto a fuoco le persone che ho attorno. Alcune le ritrovo il passo dopo, altre no; ma va bene, è una cosa che ci siamo detti fin dal principio, che abbiamo concordato prima, quando Agosto è morto.
Ho appena il tempo di sedermi, su una panchina o per terra, tirare un attimo fiato e fare il punto della situazione. Lei è accanto a me, siede a gambe incrociate e mi guarda con un sorriso degno di una bambina di sette anni stampato sul viso. Sembra che nulla possa smuovere le labbra dalla posizione a mezzaluna che hanno assunto. I sorrisi come questo possono essere nascosti temporaneamente, possono essere ignorati ma sono eterni. Dopo una giornata di nuvole e pioggia, dopo una settimana di lacrime, dopo un mese di solitudine, i sorrisi come questo ritornano sempre in superficie. Hanno radici più profonde ed è l’animo a sorridere; credo indichino una particolare predisposizione alla vita, una gioia del vivere.
Sorrido di rimando. “Non è questo il momento, sono sicuro tu l’abbia capito”. Inclina la testa,sbatte gli occhi e annuisce. In 5 minuti è già lontana.
Mi chiedo come facciano le persone a dire addio. Lo diciamo veramente? A me non sembra.
Mi pare che ci trasciniamo dietro – tutti, nessuno escluso – un carretto colmo di manichini dalle sembrianze delle persone a cui abbiamo, o almeno crediamo, detto addio. Il carretto cigola e ci rallenta; e tanto più lasciamo indietro le persone, tanto più si alza la pila di corpi. E tanto più pesa.
Quindi mi chiedo, diciamo davvero “addio”? Probabilmente quando lo facciamo, c’è già dentro di noi la consapevolezza che la persona non scomparirà per davvero, che semplicemente ce la porteremo dietro, che la potremo osservare immobile senza la possibilità di interagirci davvero. Come potremmo altrimenti affrontare l’idea dell’addio? E come eppure reagiamo all’essere noi stessi i manichini che gravano sulle ruote di un carro? Gli orgogliosi, impassibili, vi si adagiano sopra senza aprire bocca. Alcuni si lamentano; altri, i più umani, arricciano il labbro inferiore prima di scoppiare in lacrime.
È il momento in cui realizziamo di aver finito il nostro tempo; la faccia che quella persona per sempre si ricorderà pensando a noi non è più influenzabile. Non ci sarà più niente da modificare. I nostri corpi sul carro smettono di muoversi, di parlare, di urlare e di amare.
La cosa importante è che ci è concesso guardare ciò che rimane sul carretto, sul nostro, adorare le persone e venerarle, ricordandole nei momenti che sono state, ricordando i momenti che sono state.