Stavo sfogliando alcune pagine riguardo alla società del medioevo, in particolare riguardo al Carnevale e a tutte quelle feste di carattere propiziatorio che si tenevano in città e che coinvolgevano, con riti, parate, eventi in maschera e sfilate, tutta la comunità per intero.
A dire il vero, quando ero piccolo non sono mai stato un amante della parola Carnevale. Non appena sentivo anche solo pronunciare la parola Carnevale sobbalzavo, provavo una sorta di irritante fastidio nel pensare alle maschere, ai travestimenti, alle parate, ai coriandoli e alle stelle filanti. Insomma, la sola parola mi infastidiva. Credo che il potere delle parole stia anche in questo, nella loro capacità di diventare contenuti di esperienze personali e indiscutibilmente soggettive, capaci di condizionare il significato che noi percepiamo di esse attraverso il loro semplice essere dei significanti.
Questo fastidio aprioristico si manifestava sostanzialmente perché nella mia sfera di esperienze personali infantili, il Carnevale non ha mai rappresentato un momento di gioia, ma anzi, di ansie e rivalità fra chi aveva la maschera più bella e cose così. Ma anche perché in fondo non ho mai davvero saputo che cosa fosse davvero il Carnevale.
Come diceva Voltaire, il pregiudizio è una semplice opinione senza giudizio. Devo dire che mettere giudizio per rivalutare il Carnevale e le sue forme è stato un passo che ho fatto recentemente, in particolar modo grazie a Michail Bachtin, un filosofo russo che mi è capitato di incontrare una o due nel corso della mia vita. Studiare i suoi discorsi e le sue categorie (quelle che propriamente si dicono le categorie di Bachtin) mi ha armato di una nuova visione sul mondo delle feste e del Carnevale.
Lasciamo a lui la parola:
Il carnevale, in opposizione alla festa ufficiale, era il trionfo di una sorta di liberazione temporanea dalla verità dominante e dal regime esistente, l’abolizione provvisoria di tutti i rapporti gerarchici, dei privilegi, delle regole e dei tabù. Era l’autentica festa del tempo, del divenire, degli avvicendamenti e del rinnovamento. Si opponeva a ogni perpetuazione, a ogni carattere definitivo e a ogni fine. Volgeva il suo sguardo all’avvenire incompiuto.
Quello che vuole dirci Bachtin è che «il Carnevale è uno spettacolo senza ribalta e senza divisione in esecutori e spettatori». In poche parole, sono coinvolti tutti senza eccezione alcuna, non c’è pubblico e non ci sono spettatori, ma solo vita di comunità, vita carnevalesca. Inoltre «durante il carnevale sono abolite le norme della vita sociale e le gerarchie ufficialmente riconosciute». In altre parole, vengono meno i ruoli istituzionali della vita di tutti giorni: tutti sono uguali, o in casi più estremi, il ruolo sociale viene addirittura ribaltato: chi è servo diventa re, chi è re diventa umile servitore.
Inoltre, «il rapporto fra la comunità è retto dalla libertà dei rapporti e dei comportamenti» e questo ovviamente, è un ammicco agli eccessi di ogni tipo, dal bere, al mangiare, dalla corporalità alla sessualità, dai vizi all’osceno. Continua Bachtin dicendo che «il luogo della festa carnevalesca è costituito dalla piazza». Fondamentali sono poi alcune immagini, come quelle del riso liberatorio, della maschera, soprattutto del rovesciamento, concetto che regge tutta l’impalcatura ideologica del concetto carnevalesco. Basti pensare che ogni cerimonia iniziava con l’incoronamento del Re del carnevale e finiva con il suo scoronamento, l’emblema quest’ultimo del rovesciamento che «costituisce la legge generale della vita carnevalesca».
Mi sono immaginato questa collettività in festa, e ho pensato al sentimento di liberazione di una comunità intera, ma soprattutto alla doppia vita (e per nulla segreta, al contrario dell’habitué di stampo hollywoodiano) che conduceva un tipico uomo del medioevo: da una parte una vita che potremmo chiamare ufficiale, formale; quella che spesso e volentieri era una vita dura, di sottomissione, magari di umiliazione e difficoltà; dall’altra parte un’altra vita carnevalesca, non ufficiale, dominata dagli eccessi, dai vizi; una vita dove insomma valeva tutto, ma proprio tutto.
Facciamo un salto temporale e arriviamo velocemente ad oggi e a qualche superficiale e arrischiata disamina sulla realtà dei nostri giorni: anche noi uomini contemporanei siamo forzati a condurre una vita ufficiale, dominata dal ricatto del lavoro, fatta da impegni, routine, dal tempo che è diventato orario, dallo svago che è diventato concessione, dai sogni che sono diventate flebili speranze cinte dal sentimento dell’ansia di non farcela. Ma in tutto questo, dov’è la nostra valvola di sfogo, la valvola di sfogo di questa grande comunità contemporanea (se diamo per scontato che ancora di comunità si possa parlare)?
Quand’è che noi, oggi, abbandoniamo il vestito della formalità per dare vita a qualcosa di sentito, di collettivo, di evasivo?
Senza ombra di dubbio oggi non possiamo più parlare di Carnevale se non in quei termini che tanto mi irritavano da bambino (quello con le stelle filanti e i coriandoli, appunto). La società dei consumi ha sicuramente la sua buona parte di responsabilità, avendo letteralmente appiattito ogni cultura particolare e ogni cultura popolare, risparmiando solo qualche piccolo barlume folkloristico.
Tuttavia, in qualche modo possiamo ancora parlare di una società che conduce una doppia vita: infatti sembra che la tendenza evasiva dalla nostra vita ufficiale più in voga dell’ultimo decennio sia diventata il socialnetwork, nel quale (se utilizziamo bene la immaginazione) possiamo ritrovarci alcune categorie descritte da Bachtin: il riso, il volgare, il rovesciamento, la mancanza di differenze sociali e una struttura che permette a tutti la massima espressione ( e che ha dato libertà di parola, come diceva Eco, a un branco di idioti).
Il social network è la piazza dove oggi si consuma un triste e consunto Carnevale 2.0. È diventato la nostra massima cellula di evasione, nonché luogo di riconoscimento di quella che a stento riusciamo a definire una comunità. E se allora oggi ripenso (con giudizio) al Carnevale, quel senso di irritazione e fastidio sembra essere scomparso dal mio cervello, seppur avendo lasciato spazio ad un sacrosanto cinismo e ad una sconfinata desolazione.