Esplorare quei tic che ogni tanto riaffiorano sulla superficie della memoria dal profondo del nostro inconscio, provare a fermare il tempo e i suoi odori, gusti e colori. “Mi ricordo” è tutto questo, e forse anche qualcos’altro.
Adolescenza
Mi ricordo quando facevo vincere mio padre alla Playstation. Prima di tutto, quando ero adolescente i giochi di calcio per console erano totalmente diversi da quelli che siamo abituati a vedere oggi. Per cominciare, ricordo che a eccezione del colore della loro divisa e quello della loro carnagione, i calciatori erano tutti uguali. L’unica cosa che li distingueva l’uno dall’altro era il loro taglio di capelli, cosa che riduceva il campo a tre differenti tipi di giocatore: quelli calvi, quelli coi capelli corti e quelli coi capelli lunghi: per questo motivo Vieri risultava essere uguale a Del Piero, Cannavaro o Totti, ma anche a Raul e Batistuta (negli anni novanta il look alla capellone andava alla grande fra i calciatori). In secondo luogo, i movimenti dei giocatori erano limitati al tiro, al passaggio (normale o filtrante) e al lancio lungo. Non esistevano abilità, mosse speciali, regolatori di potenza e cose simili – in realtà esisteva un modo per fare il doppio passo, ma quando il giocatore selezionato lo eseguiva quello che ne veniva fuori era un movimento lento e piuttosto goffo, tant’è che quella mossa, invece di risultare spiazzante e disorientante, diventava una sorta di agevolazione per i difensori avversari. Per crossare in mezzo all’area, invece, ricordo che c’era un tasto fatto apposta e per questo i traversoni venivano più o meno tutti uguali; così, una volta che si imparava la traiettoria e si memorizzava il movimento del portiere, non era poi così difficile fare gol.
Dicevo di mio padre. In effetti, la Playstation se l’era comprata per lui, mi ricordava sempre, anche se alla fine, come da copione, le intere giornate davanti alla tele a cuocermi il cervello ce le passavo io. Ma ogni tanto, tornato da scuola, oppure la domenica prima di pranzo, mio padre mi lanciava una sfida e allora io, senza esitazione, mettevo dentro alla console il dischetto e avviavo il gioco. Il rituale era sempre lo stesso: le due sedie “del tavolo” al centro della sala; io a destra, lui a sinistra; io joystick nero per Ps2, quello un po’ più nuovo, lui quello grigio per Ps1 (che tanto, agli analogici, lui preferiva “le freccette”, motivo principale per cui, alla fine, perdeva sempre). Infine, la modalità della sfida: alla meglio delle tre. Pronti, via.
Non credo esista un momento preciso della vita in cui in figlio smette di imparare dal proprio padre; ma se esiste un momento in cui anche un ragazzo può iniziare a insegnare qualcosa di buono, quel momento per me è stato davanti allo schermo con a fianco mio papà. Infatti, col passare del tempo, la mia tecnica si affinava sempre di più (le ore a bollirsi il cervello e gli occhi doveva pur servire a qualcosa) e piano piano ero diventato, come si usa dire in gergo tecnico, un mostro.
Ma quelli furono anche i primi momenti in cui mi scoprii tremendamente empatico. Infatti, sfida dopo sfida, vittoria dopo vittoria, colto da una sorta di empatia da giocatore professionista, cominciai a lasciargli vincere la prima partita, facendo fare ai miei giocatori una serie infinita di scivolate alla rinfusa durante la fase difensiva, così da spianargli la strada verso il gol. Vederlo esultare alzandosi dalla sedia e mostrandomi il suo pugno chiuso in segno di vittoria mi faceva sogghignare, ma dovevo stare attento e concentrarmi per rimanere serio e un po’ imbronciato, così da illuderlo che il suo gol (solitamente l’unico che gli facevo segnare nel corso delle tre partite) fosse frutto della sua esperienza e bravura.
Il finale era scontato: le successive due (non sempre, ma la maggior parte delle volte) le vincevo io. Gioco, partita, incontro. E paghetta, grazie. Ma in effetti, ora che ritorno a quei pomeriggi davanti alla tele, ripenso anche a come la tecnologia, che oggi tanto ci aliena con le sue storie, i suoi like e via dicendo, abbia invece unito un padre e un figlio. Altri tempi, non c’è dubbio. Eppure anche oggi (proprio oggi, 7 marzo), la tecnologia permetterà a mio padre, che mi ha chiesto l’amicizia su Facebook giusto una settimana fa, di scoprire questo piccolo segreto che a lui non ho mai svelato, e di farlo proprio nel giorno del suo compleanno. Un’amara verità, senza dubbio; ma che ora ha assunto l’indelebile e meravigliosa forma di un ricordo.
Lorenzo Martinotti