Mi sono svegliato la mattina con una strana sensazione addosso, come un bisogno di fare ordine.
Sono sceso in cantina, ho preso tutti gli scatoloni con le vecchie cose mie e tue e li ho portati su, in sala. Alcuni avevano qualche scritta a pennarello sul fianco, tipo “Decorazioni natale” o “Scarpe”.
Nella prima c’erano effettivamente le decorazioni natalizie vecchie, quelle che tua madre ci aveva regalato quell’inverno freddissimo del 2006 e che abbiamo usato fintanto che avevamo voglia di fare l’albero. Nella scatola delle “scarpe” c’erano invece vecchie foto e cornici. Credo di averci trovato anche la confezione con i bottoni che cercavi quando se ne era staccato uno dal mio cappotto blu.
Ho preso tutto il contenuto delle scatole e l’ho passato sotto l’attento occhio della mia analisi, cercando di ricordare gli istanti e i momenti collegati ad ogni singolo oggetto. In breve sono stato sommerso dal peso del passato. I giorni si mescolavano nella mia mente, le persone diventavano sfocate: così non funzionava.
“Devo pulire” mi sono detto, “ma ho bisogno di darmi delle regole”.
La prima, ho deciso, è che tutti gli oggetti che non prendevo in mano da almeno due anni andavano nella spazzatura. Mi sono reso conto in fretta però che certe cose, malgrado vecchie di più di due anni, andavano salvate: la vecchia polaroid di mio zio e tutte le pellicole sbiadite delle nostre facce, il coltello con cui mi avevi minacciato la sera che mi hai abbandonato e la tazza di carta con la quale mi avevi portato il caffè bollente la mattina dopo. Il primo giorno l’ho passato così, buttando relitti e salvando reliquie.
La sera mi sono buttato a letto esausto e mi sono addormentato aspettando invano che tu tornassi.
Il secondo giorno, scendendo le scale che portano a camera nostra ho ignorato le cianfrusaglie che affollavano il soggiorno e sono corso in cucina a mettere su il caffè. Soffiando sulla tazza ho osservato lo scatolone blu con il tuo nome sopra. Sapevo bene cosa c’era dentro. Mi ci sono seduto vicino, ho adagiato la tazza accanto a me e l’ho aperto. I chili di carta ordinata in colorati quaderni mi hanno disorientato. Non ero sicuro di fare la cosa giusta ma mi ci sono tuffato dentro lo stesso.
Le parole con cui ci avevi descritti, la macchie di inchiostro sul bordo.
Sono andato a letto presto, confuso.
“Non dovevi”, mi hai detto svegliandomi il giorno dopo. “Non ti riguarda”, mi hai detto uscendo dalla camera.
Ho messo su il caffè mentre sollevavi lo scatolone per riportarlo giù, in cantina. “Parla anche di me, mi riguarda”, ho detto. “Parla di me” hai risposto, “e me soltanto”. Hai lasciato cadere lo scatolone con un tonfo e con un suono simile ti sei abbandonata sulla poltrona, quella davanti alla finestra. La neve formava un mucchietto sul lato inferiore dell’infisso e appiattiva il giardino di casa facendolo sembrare poco più lungo di tre metri.
“Dove stai?” ti ho chiesto. “Ti importa davvero? O lo fai per liberarti la coscienza?” mi hai sputato addosso. Penso tu abbia visto la stanchezza nel mio sguardo e penso tu non abbia trovato in me nessuna voglia di combattere.
“Da mia madre. Dice che sei un idiota”, hai sorriso.
“Niente di nuovo, insomma”.
Abbiamo fatto l’amore tutto il resto della mattina. Ci siamo dimenticati di pranzare e abbiamo riparato portandoci dei dolci al cioccolato a letto. La neve bloccava la luce che la finestra a soffitto poteva offrire quindi siamo rimasti nel buio di camera nostra, immersi nel nostro solito profumo per un po’. In quell’ombra percepivo le parole che avevo dimenticato in testa, vorticare velocemente. Poi le ho sentite lentamente scivolare verso il basso, fino alla gola, fino a strozzarmi.
Non ricordo quanto tempo sia passato, ma ad un certo punto ti sei alzata, ti sei vestita e sei scesa di sotto.
“Non puoi stare almeno fino a domattina?” ti ho chiesto guardando il buco che lo scatolone pieno dei tuoi diari colorati aveva lasciato in soggiorno.
Hai scosso la testa, ti sei infilata nel giubbotto e con una cuffia pressata sulla testa hai chiuso la porta dietro di te.