Della Natura. - TheCio

Della Natura.

Sono oramai due settimane che seguo il Maestro in mezzo a questo deserto.
Siamo partiti tre mesi fa; senza chiedere nulla ho accettato di seguirlo in viaggio, aprendo bocca solo per cantare la mia fiducia in lui, pronto a pedinare la scia delle sue parole.
Sono l’allievo, lui il precettore. Io osservo, prendo note e cresco. Lui vive. La cosa positiva è che ho l’occasione di vedere molto del mondo, seguendolo. In più, guardo come i mattoni che compongono il suo pensiero, uno sopra l’altro, possano influire sulle prospettive e sulla vita concreta.
Dei quattro cammelli che avevamo ne sono rimasti solo la metà. Le provviste sono finite e l’ultima goccia di acqua l’ha bevuta il Maestro ieri, quando il sole stava per scendere.
“Maestro, non ho mai dubitato delle sue intenzioni; ma un uomo che cammina guardando dritto avanti a sè ha bisogno di qualcosa su cui poggiare lo sguardo e questa sabbia l’ho osservata già fin troppe volte. Cosa stiamo cercando?” chiedo la sera.
Con un grugnito mi risponde secco e sgarbato (come sempre del resto): “Un uomo cammina guardando dentro di sè”. Poi si infila nel suo mucchio di coperte e si assopisce.
Il giorno dopo, quando il buio cessa di coprire i nostri occhi, guardo a occidente e vedo una città. È lì che siamo diretti. Nelle cinque assetate ore che seguono, accorciamo passo dopo passo la distanza che ci separa dai cancelli della comunità. Dentro vi sono campi coltivati e frutteti, pozzi e mercanti che ci danno il benvenuto.
“La Rossa”.
Così la chiamano per via dello strato di foglie granata che copre le strade.
La luce sembra sempre quella del tramonto. Comincio a pensare di esser giunto ai limiti del mondo, così a sud che il sole non si alza mai alto in cielo e rimane eternamente una sfera arancione in lontananza. Come fa a fare così caldo qui? La sera dormiamo in strada.

Il mattino dopo il Maestro siede ai miei piedi. Aspetta che mi sia svegliato e mi lancia una pagnotta. “Giovane, io vado a Nord” Borbotta in una sorta di discorso piatto e senza accenti.
“La seguirò a Nord allora” rispondo senza pensarci troppo su, mentre preparo la mia sacca.
“Non hai capito. Le nostre strade si dividono. IO ora mi muoverò verso Nord. Non seguirmi” e sparisce.

I tre giorni che seguono, lavoro come aiutante per il banco di una signora un po’ troppo in carne, gioviale e sorridente con tutti. Sembra non aver preoccupazioni se non quelle che riguardano i tagli di manzo che ogni giorno sminuzza e vende. Io aiuto nelle vendite e sposto le bestie, in cambio ho un pasto al giorno e un tetto sotto cui dormire, una vecchia stalla adiacente a casa sua, poco distante dal mercato.
Queste 72 ore passano lente nel deserto della mia mente. Cosa devo fare ora? Il maestro se n’è andato e io sono a mesi di cammino da casa. Sono perso.
Il quarto giorno una donna avvolta in veli talmente fini e brillanti da riflettere il sole e accecare chiunque la osservi, varca le porte della città, e con lei almeno venti altri tra servitori e guardie. Gli sguardi di tutti cercano uno spiraglio in mezzo a quella foresta di seta e solo pochi fortunati riescono a intravedere gli occhi. Io sono fra questi; nel momento stesso in cui percepisco la luce contenuta in quel sarcofago di tessuto, so cosa devo fare: parlarle, almeno una volta.
“Non la guardare; dicono sia talmente bella da pietrificare i polmoni a chiunque la osservi”, mi lancia la signora del banco della carne.
Alzo lo sguardo, è davanti al banco. Ci osserva, i teli vibrano percossi dal suo torace in una risata. Cosa penserebbe ora il Maestro? Di me, della donna, del banco della carne…? Sarebbe anche lui rapito da quella leggera vibrazione di felicità? Mi pare di sentire la dolce voce della signora che accompagna il mondo in un innoquo ridere. Si abbassa la seta, le vedo i denti, bianchi come il sale; mi sta sorridendo. Niente pietra nei miei polmoni.

“Beh, ma chi è?” chiedo quando oramai il gruppo è lontano “Chi può sorridere così?”
“E’ la Madre dei Campi. Grazie a lei, tutta la città si sostenta. Una volta alla settimana passa per le nostre vie, i nostri appezzamenti di terra, i nostri allevamenti. Ci permette di continuare a coltivare, di sopravvivere in mezzo a questa distesa di sale e sabbia. Le guardie le paghiamo noi, è nel nostro interesse.”
“Da dove arriva? Come si chiama? E’ forse una divinità?”. Rifilo queste domande una dopo l’altra, senza prendere fiato. Devo sapere.
“Tu fai troppe domande, giovane. Prendi le cose per come sono.”
“Me lo diceva anche il Maestro”
“Quale Maestro?”.

Sono arrivato solo.
Questo tutti mi dicono appena domando loro del mio Maestro. Ero solo, senza nessuno al mio fianco. Senza cammelli, senza guida. Effettivamente non ho domandato al Maestro dove avesse ritirato i cammelli. Effettivamente non ricordo lui abbia mai parlato con qualcuno.
Ma sono mesi interi che viaggiamo assieme: sono pazzo, sto impazzendo.
La cosa ancora più folle è che in fondo non importa. Se sono arrivato qui, un motivo c’è. Ho seguito la scia di quelle parole per giorni in mezzo al niente. Come sono arrivato alla Rossa, se quella scia non esisteva?

Sento lo strato di sporcizia che si forma giorno dopo giorno sulla mia pelle. Vado alla cisterna per lavarmi. Come ho fatto a resistere così a lungo? L’acqua scende dal gigantesco imbuto sopra di me, calda come il sole stesso. Scende sulla mia testa e su quella di altre dieci persone accanto a me, così fanno qui. Il liquido deve essere un bene prezioso ma ancora non capisco da dove arrivi. Non piove, pozzi non ce ne sono. Eppure gli alberi sono sempre carichi di foglie rosse che a breve cadranno sulle strade e verranno sostituite da altre foglie altrettanto rosse. Il sole non sia alza mai del tutto, la luce è in un perenne tramonto e solo la notte si spegne in un crepuscolo appena accennato. L’oscurità delle mie terre qui non arriva. Non è mai veramente giorno, non è mai veramente notte.

La settimana seguente aspetto il giorno della carovana. Passeranno, lei con le guardie e i servitori.
Passano, e come la volta prima mi sorride, ridacchia e se ne va. Passano anche quattro settimane di vuoto giustificato solo da quel sorriso, ogni secondo giorno dei sette. E infine lo faccio.
Mentre si allontanano li seguo, fuori dalle mura, in mezzo alle dune. Li seguo per ore.
Arrivano, un palazzo di sabbia solida, con decorazioni rosse e azzurre, sottili strisce di colore che coronano le mura gialle. Un fuoco è acceso sulla torre più alta, quella centrale; illumina l’aria del crepuscolo.
Non ci sono porte ma archi, non finestre ma buchi nei muri, di ogni forma e dimensione. Cupole a cipolla coronano le torri e appena varcato l’ingresso vedo che l’erba ne fa il pavimento.
Dentro, sotto la torre centrale, la vedo. Seduta su un trono di rena, senza seta sulla pelle. I miei polmoni rilasciano l’aria, disobbediscono ai miei istinti; e lei mi vede, mi sorride.

Mi risveglio in una camera dai muri di un azzurro simile al cielo, su un materasso basso e incassato nel pavimento. La Madre dei Campi siede ai miei piedi, nuda come la sera prima. Il sole nel suo tramonto di pieno giorno fa penetrare la luce rossa dalle feritoie nel muro alla mia sinistra.
Faccio scivolare i miei piedi sul pavimento di erba. “Cos’è successo?”, biascico.
Ancora una volta sorride, il corpo leggermente scosso da una vibrazione.
È abbastanza chiaro a entrambi quello che sta accadendo.
“Per poterci sfiorare la pelle, dobbiamo sacrificare qualcosa. È la mia natura. Se io ti amassi profondamente, non avrei più tempo per i miei doveri. Perderei anche la voglia di adempiervi, se tutta la mia passione sfociasse in te. Non ti sembra scorretto? Dover portare un peso così grave? È la mia natura”.
Gli occhi si piegano, il suo sguardo è meno luminoso ora. Sembra che il dover fare i conti con la propria natura pieghi la gente, spenga un po’ della loro forza. Probabilmente è il prezzo che bisogna pagare per una serenità più genuina, che considera i limiti del proprio essere: adattarsi ci costa fatica. Come lo sta facendo lei, devo farlo anche io. Il mio Maestro concorderebbe.
“E cosa ne sarà di quella gente?”

Tace.
“Sacrifichiamo la vita di quelle persone per poterci amare?”
“È la mia natura.”

Continua su “Dei Ricordi

A cura di Emanuele Ferraris

Mi piacciono la musica, le droghe leggere ed evitare le mie responsabilità.

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