Quando facevo le medie tutti i miei compagni di classe erano dei fascio. Per quanto un ragazzino delle medie possa comprendere cosa significa fare la celtica sul proprio zaino e dire di essere fascisti, loro lo dicevano. Io, che come sempre prima di fare qualunque cosa devo trovare l’alternativa più astrusa, dopo essermi informato sul mio libro di storia su chi fossero i loro oppositori e aver capito che neanche quella visione mi entusiasmava più di tanto, decisi di entrare nel mood cacaminchia da cui ancora oggi non sono uscito, riempiendo i miei quaderni con le A di Anarchia.
Poi mi lessi qualcosa di Bakunin, Proudhon, mi sentii profondamente ipocrita perchè potevo fare anche tutte le A che volevo ma non avrei mai compreso veramente cosa volevano dire, dato il mio background. Cosa che tutt’ora mi capita con circa il 95% della musica che ascolto e che sopratutto sostengo andando ai concerti, ma lasciamo stare.
Così mi trovai ad avere un nulla in mano, anzi un qualcosa di un po’ fastidioso. Qualcuno mi disse una volta “dovresti sostenere chi sostiene te”. Mi è sempre stato sulle balle come concetto. Se nessuno sostiene chi non viene sostenuto da nessuno, chi li sosterrà? D’altra parte, se sostengo qualcuno che non mi sostiene, non compio un atto masochista e sopratutto ingrato? Risposte a queste domande ancora non ne ho.
In uno strano periodo della mia vita, decisi che ero libero di scegliere a chi legarmi. Ontologicamente un controsenso, ma ritenevo fosse l’unica scelta reale possibile, quanto di più vicino ad una visione oggettiva della realtà. Dopotutto non bisogna sacrificare qualcosa di noi per avere un rapporto con gli altri? Non dobbiamo sottostare noi stessi a delle leggi che ci permettono di vivere in una società civile? Abnegai totalmente me stesso all’essere un essere in una condizione e status sociale e come tale avevo dei paletti al di là dei quali non potevo permettermi di andare. Anche se mi pesava. Mi vedevo connesso agli altri con delle grosse catene d’oro, dove il sentirsi non era perchè mi faceva piacere, ma perchè mi sentivo in dovere di farlo. L’unica condizione di piacere derivava da quelle scappatelle che ogni tanto mi concedevo con quegli amici che vedi poco, in cui potevo aprirmi ed essere totalmente sincero, senza paura dei loro giudizi e sopratutto perchè sapevo che il nostro rapporto era talmente profondo che neppure la peggio litigata l’avrebbe scosso.
Così infatti andò.
Questa mia visione distorta però mi portava a creare un personaggio che non ero io. Volevo ben altro. Una condizione di tensione eterna, per cui mi comportavo “bene”, nel “modo giusto”, perchè ritenevo che fosse l’unico modo (ed in parte lo era) per mantenere quelle catene d’oro. Belle, luccicanti, che portavo con tanto orgoglio. Così pian piano tutti i miei rapporti divennero con un altro da me. Come in un videogioco, davo gli ordini e lui eseguiva. Ero io, ma non ero io. Con gli amici, con la famiglia.
Ogni tanto esplodevo, nessuno capiva cosa mi prendesse, usciva il vero me stesso con botti inaspettati. Litigi, urla, parole terribili. O, peggio, mi limitavo a subire e a stare zitto, in nome delle catene. Così ogni cosa diventava un dovere, una missione da compiere perchè seguiva il mio modello di comportamento e ancora questa volta mi ero “comportato nel modo giusto”. C’erano certe condizioni e situazioni in cui riuscivo a essere me stesso senza tanti cazzi (le serate nerd, i collettivi ad Economia, le uscite fra maschi) ma erano solamente un altro modo per sentirmi in colpa, perchè mi lasciavo andare e il conflitto fra me stesso e chi volevo essere veniva fuori in modo troppo forte.
Fino ad una decisione.
Credo che iscrivermi in Bocconi mi abbia, in un certo qual modo, cambiato la vita. Potete solo immaginare la fatica nel dover ammettere che sì, sono un capitalista bastardo, che mi piace il marketing, che volevo fare il salto di qualità, che sono competitivo, che volevo fare la scelta migliore per me stesso. Mettendo da parte tutto il mondo che mi ero costruito a Torino. Sapendo che avrebbe richiesto un impegno non indifferente, che non sarei potuto tornare tutti i weekend e che inevitabilmente avrebbe cambiato il mio modo di vedere il mondo.
Non penso di potermi definire neanche credente, ma sono cresciuto in un mondo cristiano prima che cattolico. Poi ho approfondito per un periodo la mia spiritualità leggendo i miti delle varie religioni. Comprai in adolescenza un anello con scritto Odino in rune vichinghe. Benchè a chi chiedeva dicevo che era come la croce che una volta portavo, in realtà lo facevo solo perchè della storia di Odino ammiravo il suo sacrificio per la conoscenza. Odino infatti non ha un occhio, perchè ha deciso di sacrificarlo per poter ottenere l’onniscienza, impiccandosi per nove giorni e notte notti. Non provo neanche a rendere l’epicità di quel mito, non ne posseggo ancora i mezzi, ma fece breccia nel mio cuore. Il sacrificio supremo, a se stesso per se stesso.
Quando formulavo l’iscrizione mi sentivo come se mi stessi ponendo su quell’albero. Non sapevo quale sarebbe stato il mio occhio, che parte di me avrei perso nel fare questa semplice decisione. Sapevo che qualcosa se ne sarebbe andato. Che avrei perso per sempre una parte di me. Che non potevo più permettermi di cincischiare. Ero convinto che sarebbe stato il mio modo di vedere gli ultimi (che anzi, è ancora più forte in me), il mio sentirmi un po’ anarchico e fuori dagli schemi (tutt’altro, oggi ancora più di ieri sono sicuro che è necessario cambiare paradigma di giudizio), il volermi impegnare (che è diventato totale, dato che ho abbandonato visioni politiche e con esse annessi tutti i doppi fini). Invece ho sacrificato il mio spirito di sacrificio, il mio volermi sentire un bravo bambino perchè faccio i miei doveri, il preoccuparmi troppo, i sensi di colpa, l’ansia.
Quando uno risolve un problema è grande la paura di perdersi. Di divenire qualcun altro. Ma non è questo il punto: prima ero qualcun altro. Anzi, non ero, occupato da preoccupazioni, pesi, menate. Ora sono io.
Per me, ora, libertà significa questo. Essere me stesso. Senza filtri, maschere. Difficilissimo da fare, ma ci provo ogni giorno. Senza star lì a meditare ogni mia singola azione come se dovessi guidare un esercito nella Russia d’inverno. Ciò che ho è vero. Che sia felicità e sofferenza sono io a viverle, in nome del fatto che meritano di essere vissute per quello che sono, non per altro. Non perchè “è giusto così”, ma perchè io sono così. Un me stesso che cambia, che è un insieme di parti di me, che si contraddice. Che muta di base a chi ho davanti. Ma non è più una maschera, semplicemente accetto il mio essere proteiforme come una mia caratteristica fondante e fondamentale.
Perchè ho iniziato un viaggio dentro me stesso, che non so dove mi porterà, ma almeno sarò io a viverlo, non qualcun altro.
Decio
-“Quello che cerco…”-Spiego,-“la forza che cerco non ha a che vedere col vincere o perdere. Non voglio un muro per respingere la forza che viene dall’esterno. Quello che voglio è la forza per ricevere gli assalti che arrivano, e sopportarli. L’ingiustizia, la sfortuna, la tristezza, i malintesi, le incomprensioni… Voglio la forza per sopportare tranquillamente tutte queste cose.”
-“Credo però che questa sia la forza più difficile da conquistare.”
-“Lo so.”
Haruki Murakami, Kafka Sulla Spiaggia.