In inglese il mercurio, o argento vivo, viene chiamato anche quicksilver. Fin da bambino questo particolare materiale mi ha sempre sorpreso: un metallo liquido. Scivola, si muove, ma rimane un metallo. Se inalato può avvelenare. L’ho sempre osservato affascinato, questa sostanza che è qualcosa ed al contempo l’idea opposta di quello stesso qualcosa.
Lo guardo, mi attrae. Ci gioco con un paio di guanti. Sento fra le dita questa sostanza che mi dicono essere un metallo, ma del mio concetto di metallo non ha proprio nulla. Forse è questo che mi porta ad esserne così attratto, in un modo in cui non dovrei.
Scivola. Si ferma. Lo tocco e si muove un poco. Continuo a giocarci fra le mie mani. Mi chiedo se stia evaporando, quanto mi farà male. Se effettivamente sto facendo una idiozia, a continuare a pacioccare con questa sostanza.
Un argento veloce. Che si adatta al contenitore in cui viene messo. Così lo rimetto dentro, da dove è venuto. Aspettando che mi torni quella insana voglia di mettermi alla prova, toccando con le mie dita qualcosa che potrebbe farmi molto male. Conoscendomi ci giocherò sempre di più, anticipando di qualche minuto l’incontro prestabilito. Che vuoi che siano, un paio di giri sulle mie mani coperte di plastica? Sono io che lo muovo o è lui che mi muove?
So che mi è concesso poco tempo, che presto dovrò chiudere il mio laboratorio. La creatura è pronta, tutto è allineato, ma mi limito a fare il bambino con una boccetta argentea.
Così, dopo aver tentato la fortuna ancora una volta, vado a lavarmi. Mi tolgo i vestiti, e rivedo la mia anima, ricoperta delle figure di Lichtenberg. Quando quel fulmine mi ha colpito non ero pronto, ma mi dicono che non lo sei mai. Ne porto i segni, dentro di me.
Mi suggeriscono anche di non preoccuparmi, che anche le vestigia di questo incontro scompariranno nel tempo. Dentro di me ne sono pienamente consapevole, ma non voglio. Così cerco di riavvicinarmi a quel luogo, a quell’occasione, conscio che non succederà mai più.
Un fulmine non colpisce mai due volte nello stesso luogo, figuriamoci la stessa persona. Il tempo è un gran tiranno. Si porta via tutto. La mia anima si riprenderà e quel fulmine sarà solo qualcosa da raccontare ai nipotini e agli amici. Almeno, così continuo a ripetermi.
Mentre, mesto, continuo a vagare alla ricerca dell’occasione giusta per farmi colpire di nuovo. Non voglio ammettere a me stesso che possa accadere di nuovo, in un altro luogo ed in un altro contesto. Mi aggrappo al mio corpo bruciato, al mio essere marchiato da un breve incontro con qualcosa di più grande di lui.
Vorrei (ma voglio davvero?) smettere di ricercare quel momento. Non ci riesco. Quindi mi limito a riguardarmi dentro e a vedere quelle orme, segno che qualcosa c’è stato. Che una scarica elettrica mi ha colpito e sono sopravvissuto, ironicamente.
Così, mi rimetto i guanti e riapro il contenitore del mercurio. Da vestito quei disegni nel mio essere non li vedo. Da camiciato menchè meno. Così aspetto di guarire, giocando con qualcosa che potrebbe farmi anche più male.
Forse.
Solo per sentirmi un po’ più vivo.