La Metropoli - TheCio

La Metropoli

LA METROPOLI

Noi aspettiamo l’alba.

Aspettiamo l’alba pietosa che venga a liberarci dall’enorme peso di una notte crudele, dell’ennesima notte puttana che si porta dietro i suoi fidi strumenti di tortura: il silenzio urlante che ci fracassa i timpani, il buio multiforme in cui è racchiuso tutto ciò che non vogliamo vedere, la sete che arde la gola e che non si può placare con il bicchiere d’acqua che teniamo sul comodino. E che, soprattutto, si porta dietro uno sciame ronzante di domande, domande infami, nere mosche che sbattono le loro ali contro i nostri occhi,si infilano nella nostra bocca, succhiano il sangue dalle nostre piaghe. Noi aspettiamo l’alba, che ci liberi da tutto questo.

Aspettiamo i primi, grigiastri raggi di sole che sgocciolano dalle fessure tra le tapparelle. Aspettiamo che sul piatto quadrante della sveglia digitale compaiano le stanghette che compongono i numeri zero sette punto zero zero, e che la monota suoneria rilasci nella stanza, come ogni mattina, la sua risata metallica. Aspettiamo solo che qualcuno ci venga a dire “Prego signori, la notte è finita, potete alzarvi”.

E allora ci alziamo, doccia per sciacquarci via dal capo gli ultimi rimasugli di una notte appiccicosa e nauseante, colazione veloce con caffè e compresse per il mal di testa, e partiamo. E finalmente possiamo cominciare ad aspettare il tramonto.

Noi aspettiamo il tramonto dalle dolci dita che venga a liberarci dal soffocante calvario di un giorno senza senso, uguale a tutti i diecimila che abbiamo già vissuto e ai diecimila che ancora vivremo, un giorno di affanni, noia, stanchezza, un giorno che va a depositarsi nei polmoni come polveri sottili, impregnandoci il fiato di monotonia, un giorno che si condensa in una goccia di acido nel nostro stomaco, giorno dopo giorno, aumentando sempre più il livello fino ad aprire ulcere sanguinanti dentro di noi, un giorno che, come cocaina, una volta inalato sale su rapido fino al cervello e lo percuote con violenza.

Aspettiamo l’orario di uscita dal lavoro, aspettiamo l’ultimo tram che, cigolando, ci riporti a casa, e corriamo tra le strade, ci facciamo largo a spintoni, ma quanta gente c’è, devo salire su quella stramaledetta metropolitana, ma quanti sono, quante facce, quanti occhi, quante mani, quante gambe che non vanno da nessuna parte, quanti cuori pulsanti a tempo, quanti fegati devastati dall’alcol e dai panini McDonald’s, quante dita che stringono convulsamente fra loro una sigaretta, quanti passi, quante vite, quante parole?

Noi non vogliamo vedere nessuno.

Noi vogliamo non dover più vedere nessuno.

Noi odiamo ogni faccia, ogni occhio, ogni mano, ogni gamba, ogni cuore, ogni fegato, ogni paio di labbra che stringe una sigaretta, ogni passo, ogni vita, ogni parola. Tutte le mattine, quando ci alziamo, quando si è esaurita, consumata, la nostra attesa dell’alba, quando si accende la nostra attesa del tramonto, ecco, noi tutte le mattine sappiamo già che non andremo d’accordo con nessuno. Noi aspettiamo solo che qualcuno ci venga a dire “Prego signori, il giorno è finito, potete coricarvi”.

Non ci aspettiamo niente. Non ci aspettiamo niente dal giorno se non la noia e la nausea, non ci aspettiamo niente dalla notte se non l’insonnia e il tormento. E allora perché aspettare? Perché aspettare ancora? Ne abbiamo sentito parlare, ne conoscevamo qualcuno, di quelli che hanno deciso di non aspettare più. Tutto molto rapido, apri il cassetto, prendi la pistola – in quanti abbiamo una pistola? Ogni poliziotto, ogni carabiniere. Ti fai il porto d’armi, oppure lo ottieni tramite i contatti giusti, oppure compri armi da fuoco illegali, rubate, di contrabbando. Le pistole sono disseminate in giro come caramelle, nove persone su dieci,almeno di quelle che conosciamo noi, ce l’hanno di sicuro nascosta in un cassetto, anche se nessuno lo dice – te la punti alla tempia, è un attimo, un istante, non devi neanche aspettare, una detonazione, sangue e roba grigia ovunque, prego signore, l’attesa è finita. Abbiamo sentito parlare anche di molti che si son fatti un bel cocktail, sonniferi, barbiturici, droghe e medicinali, droghe e medicinali, son forse sinonimi? Non lo sono? Così devi aspettare di più però, devi aspettare il sonno da cui non risvegliarti, oppure l’overdose. Chissà qual è l’ultima immagine che ti rimane impressa sulla cornea, quale l’ultimo pensiero che ti accarezza la mente? Chissà se poi, all’ultimo, cambi idea, vorresti tornare indietro,vivere, e allora ti prende il terrore folle della morte, oppure sei sereno, per la prima volta nella tua vita da adulto sei sereno,

perché sai che l’attesa è finita, stop, finita, puoi uscire di scena? E allora perché aspettare?

Sarà l’istinto di sopravvivenza, sarà la speranza, che è, dovrebbe essere, l’ultima a morire, sarà che c’è una flebile voce da qualche parte nel tuo cervello, che ogni tanto, ma solo ogni tanto, quando ti soffermi a guardare il cassetto con la pistola o i sonniferi o il ponte o le rotaie del treno, si fa sentire e ti urla No! No! Cosa fai, idiota, cosa fai? Nulla è perduto, non tutto è perduto, qualcosa, ma basta aspettare, aspettare, aspettare. E allora ti dici sì, aspetto ancora un po’, per vedere se qualcosa cambia, se lei ritorna, se io ritorno quello che ero prima, se trovo un altro lavoro, se cambio casa, se la mia squadra vince il campionato.

E allora aspettiamo.

Aspettiamo che qualcuno ci venga a dire “Prego signori, il mondo è finito, potete andarvene”.

Cecilia Maiorana

A cura di Ospite

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