“Ho freddo.” Una nuvola di condensa si crea al contatto tra il mio fiato caldo e l’aria gelida del mattino, fluttua per qualche istante e lentamente si dipana tornando invisibile.
Ti volti a guardarmi, le sopracciglia aggrottate in quell’espressione severa che ti fa tanto sembrare una mamma sul punto di sgridare il figlioletto e, proprio come una mamma, dici : “Ti avevo detto di coprirti!”
Il cruccio scompare, ora rimesti nella borsa con frenesia controllata, imprecando leggermente tra i denti perché sei sempre così disordinata e quella borsa è troppo grande, poi un piccolo ghigno soddisfatto t’illumina il volto e torni a girarti verso di me con in mano un paio di guanti neri troppo grandi per essere tuoi, con aria trionfante.
“Tieni, mettiti questi. Io ne ho un altro paio.”
Me li porgi con noncuranza, come se, a non allungare la mano per prenderli adesso, li lasceresti cadere a terra, lì, sul cemento ai tuoi piedi, e non li degneresti neppure più d’uno sguardo; ma so bene che la tua è tutta dissimulazione, lo leggo nella tenerezza con cui li tieni tra le mani, quei guanti troppo grandi, riesco a vederti correre qui e lì, mentre ti prepari per uscire, afferrarli e gettarli in borsa sapendo bene che non avrei mai valutato quanto freddo avrebbe fatto davvero.
Stai lì, con un paio di guanti neri tra le mani arrossate, perché per cercarli meglio ti sei tolta i tuoi, come se non t’importasse che li prenda o meno, tanto tu li hai presi perché non si sa mai, ma lo so che dietro quel non si sa mai, ci sei tu e una miriade di piccoli gesti nascosti: l’accendino sempre in tasca – anche se non fumi e quando ti chiedono perché ce l’hai, ti stringi nelle spalle e dici “Così, può sempre servire” – un pacchetto di fazzoletti, anche se io con il raffreddore non ti ho visto mai; o quella volta che Annetta aveva litigato con il fidanzato e tu, subito pronta, senza dir neanche una parola, sei corsa a comprare del gelato di quello in scatola, perché ormai il gelataio era chiuso – si sa d’inverno, con tutto il freddo che fa, i poveri gelatai ci rimetterebbero a tener aperti dopo le cinque, loro non pensano certo alle pene d’amore di una povera Annetta, o una Graziella, o chi so io – e, fazzoletto alla mano, la consolasti fino a farla addormentare.
Guardo quel paio di guanti neri, un po’ sdruciti nel punto in cui il pollice e l’indice si uniscono, e non so come dirti che, sì, ho freddo, ma non quel tipo di freddo a cui stai pensando adesso, non quello che quel paio di guanti possa fermare. Ѐ quel gelo di cui non si può parlare perché ti prende dentro e s’irradia in ogni parte del corpo trasportato dal sangue, sempre più lontano. Funziona al contrario, senza seguire alcuna legge di termodinamica, parte dal cuore e da lì viene pompato fino alle estremità; è così che all’inizio non te ne accorgi, è solo un piccolo pizzicore e non ci fai caso, ma, man mano che dilaga, il pizzicore si trasforma in gelo e intorpidisce ogni cosa. Allora, allora non riesci più a muovere la lingua e a parlarne e il cuore, il cuore batte piano, silenzioso, e ogni battito è una fitta, un pezzo di ghiaccio che si incrina e ti trafigge. Sempre più piano, così da provare meno dolore, da rallentare anche l’avanzata del gelo; anche se ormai è troppo tardi, le dita non sentono più nulla, le gambe intirizzite sono quelle di un burattino : lignee, immote.
Come faccio a spiegarti che non è la mia temperatura corporea il problema? Il problema è che quando guardo le persone tutt’attorno, loro ridono, piangono ed io vorrei ridere con loro, piangere perfino con loro, ma tutto quello che affiora sulle mie labbra è un pallido sorriso, un mesto cenno del capo, nient’altro. E forse tu mi hai visto ridere fino alle lacrime giusto due giorni fa, alla festa di Carlo, mi hai visto cantare forte, tanto che il giorno dopo mi son lamentato della gola che bruciava, ma come faccio a dirti che quelle risate e quelle lacrime io non le ho sentite davvero e che il mio cantare era solo una versione melodica di un urlo, per capire se almeno quello lo riuscissi a sentire?
Mi guardi con occhi limpidi, ne sento il tepore e sono geloso. Meschino, ecco cosa sono; no, non posso certo ammettere di veder gli altri felici e soffrire perché quella felicità non m’appartiene, nel momento stesso in cui confessasi questo freddo tutti saprebbero quale razza di mostro io sia diventato. Un alieno rispetto agli uomini che vivono nei loro corpi le calde stagioni dell’emozioni; il mio corpo s’è fatto scheletro di albero morto, nero e secco di ogni linfa.
Vedo fronde verdi smuoversi al tempo della musica del vento, oscillare e ondeggiare tra l’orchestra di cinguettii amorosi e le risa delle primule, mentre le mie radici affondano nel terreno ghiacciato alla ricerca di un minimo di calore, unico sfondo la non appartenenza. La solitudine l’unica compagnia possibile, perché davanti al tepore della folla il gelo s’inacutisce a sferzate taglienti. Come posso raccontare questo mio inverno?
Non posso.
Prendo i guanti dalle tue mani e li infilo, la lana ruvida graffia la pelle seccata dall’aria. “Meglio?”, chiedi. Annuisco con un sorriso stiracchiato e borbotto un grazie.
Cala il silenzio e rimaniamo così, in attesa dell’autobus.
Federica