Biella è una città di cui ci si innamora perché si deve, non perché rapiti dalla sua bellezza ma perché ci si cresce o ci vive il proprio partner.
Biella rimane comunque una città di cui è difficile innamorarsi.
Biella è la sua regione associata che, se fosse leggermente più piccola, scatenerebbe la fusione nucleare.
Biella sono montagne basse ma traditrici, valli strette, foreste buie, pianure afose.
Biella è l’umidità che nasconde le montagne anche per settimane di seguito, facendoti dimenticare di non essere veramente circondato da una semisfera plumbea.
Biella è grigiore che a volte si squarcia e mostra scorci mozzafiato.
Biella è acqua incredibilmente buona, piccoli gioielli gastronomici che finge di voler condividere con il mondo.
Biella è acqua, soprattutto: torrenti domati ma non addomesticati, ruscelli nascosti, laghetti e polle a volte neanche segnati, memoria d’acquitrini, pioggia a non finire.
Biella sono piccoli borghi medievali e cascine circondate da villette monofamiliari, palazzoni popolari e palazzine neorealiste.
Biella è un centro storico che non è il centro città, a sua volta sostanzialmente una vasca olimpionica che al sabato diventa un flipper di interazioni sociali.
Biella è quasi equidistante da Torino e Milano, vi perde i suoi migliori talenti da prima che la fuga di cervelli divenisse un concetto di dominio pubblico, eppure non riesce ancora oggi ad avere un collegamento decente con il mondo esterno.
Biella è un dialetto chiuso come i suoi abitanti, stridente, saltellante di tonalità.
Biella è una riserva naturale per i pochi giovani che ancora si esprimono in biellese, più come argot che come lingua nativa.
Biella è anche le legioni in assottigliamento di vecchi che nel Biellese hanno origini secolari, che prima disprezzano e poi accolgono nei propri ranghi i penultimi arrivati, per sputare sugli ultimi arrivati: dai Bergamaschi a cavallo della guerra, ai Veneti, ai Meridionali e tra poco gli Albanesi.
Biella è una città post-industriale che ha vissuto un’adolescenza roboante e non vuole accettare di essere invecchiata.
Biella è una città più ricca di quanto meriterebbe.
Biella è un’aristocrazia che si comporta da parvenu, una classe operaia che non è riuscita ad impadronirsi dei mezzi di produzione prima che venissero spostati in Asia e una piccola borghesia che è misteriosamente il modello di riferimento per entrambi gli estremi.
Biella è retorica della lana con un indotto senza un’industria a supporto.
Biella è smaccato provincialismo anche nelle proprie aspirazioni cosmopolite.
Biella è la provincia a più alto tasso di suicidi d’Italia. Ci sarà una ragione.
Biella è tipica cronaca di provincia, ma quella descritta da Lovecraft: una teoria di anziani colti da malore e patenti ritirate inframmezzata da brigatisti in formazione e necrofori necrofili.
Biella è parsimonia portata allo stremo, milioni perduti pur di risparmiare pochi centesimi.
Biella è la poca voglia di essere associati a Quintino Sella, il quale considererebbe Dijsselbloem uno sporco keynesiano fatto di ecstasy.
Biella è anche la dimora dinastica di Amedeo Avogadro, il che non ebbe alcun effetto sui suoi lavori ma che piace sempre ricordare ai forestieri.
Biella è pure un curioso apporto alla storia militare di casa Savoia con Pietro Micca, lo sfortunato geniere eletto a martire di una guerra dinastica, le fortificazioni dei minatori andornesi alla battaglia dell’Assietta quarant’anni dopo e infine con l’inventore dei bersaglieri.
Biella è terra di maestranze in emigrazione da secoli che tornavano a casa con il gusto dell’estero e, cent’anni prima dei Kevin e Yvonne, portarono nelle proprie valli nomi come Carmen o Nelson.
Biella sono anche zone piene di doppi o addirittura tripli cognomi, non per la nobiltà, ma perché l’endogamia era così dilagante che i patronimici a un certo punto non erano più sufficienti per discriminare tra famiglie.
Biella sono i soliti locali che fanno arrocco, i soliti ubriachi che pattugliano le solite panchine, le solite lamentele sull’assenza di alcunché di eccitante.
Biella è l’impossibilità di trovare cibo straniero che non sia il cinese nipponizzato o il kebab turco-tedesco.
Biella sono i vecchi compari con i quali continui a darti appuntamento anche quando ormai non ci vivi più, il caffé in via Italia, il gelato sulle mura del Ricetto, la toma stagionata a forza di imprecazioni in malghe insalubri, i sentieri che percorri con il tuo cane, la nebbia che si trasforma in afa, le gelate, la neve che non arriva mai e quando arriva riesce comunque a fare danni, il turismo sacro di Oropa che richiama anche i mangiapreti più fieri, ammirare tutta la Bassa piemontese dalle montagne.
Biella è un rapporto di odio e amore, opprimente quando ci vivi ma dolce nostalgia quando la abbandoni per cercare di costruirti un futuro.
Biella è un sputo sulla cartina geografica, “near Turin” ogni volta che ti chiedono da dove vieni, che non offre molto nemmeno a chi si accontenta, paesaggi che emozionano ma non catturano, eppure continui a tornarci. La fortuna di Biella è il marchio che ti imprime nella mente.
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