Sono qui che provo a scrivere una specie di seconda parte del racconto della serata. Ieri notte sono arrivato a casa, mi sono buttato sotto le coperte tentando di guardare il gol di Morata su YouTube e tempo quattro secondi mi sono addormentato (col telefono in mano) in un vorticoso delirio allucinatorio. Se vi interessa, ho sognato che cercavo di ritirare la spesa nel frigo ma non c’era più spazio per i carciofi. Sì, dire che i miei sogni sono noiosi sarebbe riduttivo.
Dunque, devo scrivere questa seconda parte della serata di ieri, che da un punto di vista superficiale, non è stata niente di memorabile, di unico o inimmaginabile. Potremmo riassumerla brevemente così: sei amici escono a bere insieme. Fine.
Allora perché scriverne? Perché a me la superficie piace fino ad un certo punto, perché adoro scavare con le unghie per far emergere qualcosa che assomigli ad un senso; perché molto più semplicemente so che ieri sera c’è stato qualcosa che ci ha uniti, che ci ha consolati, che forse ci ha fatto prender fiato dagli affanni che ci stringono lo stomaco ogni giorno della nostra vita.
Ad ogni modo, a raccontarvi cos’è successo ieri ci ha già pensato Decio, che non solo si è già appropriato nella sua prima parte di tutti gli aneddoti divertenti, ma ci ha messo pure la morale finale. In poche parole, per portare a termine questo compito, mi tocca inventarmi qualcosa. Maledetto Decio.
La serata di ieri mi ha fatto venire in mente un breve saggio di Italo Calvino dal titolo I bigliardini della solitudine. In quelle righe l’autore si lascia andare in una descrizione della vita notturna giapponese, concentrandosi sui frequentatori delle Pachinko, ovvero le numerose sale stracolme di flippers e bigliardini elettrici in cui ci si imbatte per le strade di Tokyo. Calvino si sente smarrito di fronte allo spettacolo che si mostra ai suoi occhi. Gli uomini all’interno delle sale da gioco sono tutti uguali. Ognuno di loro sta seduto davanti alla sua dannata macchinetta come se stesse occupando il suo posto di lavoro, e se non fosse per l’acceso e violento cromatismo e per il forte rumore, non si direbbe che si tratta di luoghi di divertimento. Nessuno si guarda, nessuno apre bocca. I volti sono incollati al vetro verticale (i bigliardini giapponesi sono diversi da quelli americani) che riflette le luci e risucchia le anime di quelli che oramai sono dei semplici automi.
Adesso mettiamo un attimo da parte Calvino e torniamo a ieri sera. Siamo seduti a un tavolo, ho appena finito il primo negroni e già sto aspettando il secondo. Guardo gli altri seduti con me: Ste, Ema, Fra, Cecilia, Decio. Tolto Ste, è la prima volta che esco a bere qualcosa con queste persone.
Perché sono qua? Perché sento una forte affinità con ognuno di questi, e anche se li conosco poco mi sembra di sapere tutto di loro. Non so come definirci; non so se siamo dei casi umani, delle persone interessate al mondo, degli inguaribili romantici, o se facciamo parte di quella categoria di persone che si commuove per le cose, che non può fare a meno di essere sensibile al mondo; con molta probabilità siamo solo dei ragazzi che prendono a mazzate il cervello con le loro paranoie. Ma c’è una cosa che senza ombra di dubbio ci accomuna: il nostro rapporto con la società. E allora i discorsi si sprecano, le sigarette non sono mai abbastanza, il portafoglio si svuota come si svuotano le nostre menti: le ragazze, la discoteca, la società, il lavoro, la gente, le ex (maledette ex). Ma ci scherziamo su, anzi siamo felici di occupare il posto che in fondo sappiamo che ci spetta.
Alla fine decidiamo di andare in Fabbrica dell’Oro, che ci fa schifo, ma questa sera vale tutto, anche arrivare ad importunare la gente fuori dalla discoteca con domande relative a Pannella e Berlusconi. E poi è il momento delle riflessioni biascicate, delle pizzette a un euro, di godersi gli sgoccioli di quella che sappiamo tutti essere stata più di una semplice serata.
Ed è proprio qui che ci ritorna utile Calvino. Nel descrivere quei giapponesi attaccati alle loro macchinette, lo scrittore parla di un’affollata solitudine. E non passa giorno nel quale io non mi senta proprio come Calvino: vedo ragazzi affollarsi nei locali, nelle discoteche, nelle strade e mi sembra di vederci quei giapponesi delle Pachinko. Vedo persone che non si interessano al mondo, che se ne fottono della poesia, della letteratura, dell’arte, della musica, delle persone stesse. Vedo masse che si spostano da una parte all’altra senza parlarsi, senza guardarsi. Vedo indifferenza, vedo omologazione, vedo superficialità. Più semplicemente, vedo una coloratissima e rumorosissima solitudine.
E poi ci sono le serate come quelle di ieri. Quelle che possono sembrare come tutte le altre, ma che sono in realtà dei bellissimi momenti, passati con bellissime persone. Proprio ieri sera, grazie a cinque bellissime persone, seppur immersi in quell’affollata solitudine, mi sono sentito un po’ meno solo.