Devo dire che la “canzone dell’estate” mi ha portato a pensare. Tralasciamo per un momento i due soggetti commerciali, venduti, insulsi, vuoti, che si fanno moralizzatori di una società che contribuiscono a rendere di merda ogni volta che aprono bocca.
Una volta io ero esattamente un sostenitore del messaggio che vuole lasciare. Ho passato anni della mia vita a rifuggire le foto, a evitare di pubblicarne sui social perché mi dava fastidio rendere il mondo complice e partecipe della mia felicità.
Avevo paura di rovinarla. Che in qualche modo venisse scalfita, rendendola cristallizzata in quel momento. Che poi, un giorno, a riguardare quelle foto, avrei provato solo un immenso dolore. Amicizie perdute, relazioni finite, persone che non fanno più parte della mia vita. E invece guardi tutte quelle centinaia di foto, in cui sei sorridente anche se magari un attimo prima eri la persona più triste sulla faccia della terra.
Per non parlare dei momenti fissati nella mente. Dell’impegno che ci mettevo a concentrarmi, ad incidere una immagine per sempre nel mio cuore. Di tutte quelle sere al mare, che guardando l’orizzonte lasciavo andare ogni preoccupazione. E del nervoso che sentivo sulla mia pelle ogni volta che vedevo qualcuno che si faceva una foto, o peggio qualcuno che mi provava a fare una foto cercando di cogliere cosa stessi pensando in quel momento.
Un mare nero di astio mi pervadeva, diventavo fastidioso e piuttosto irritante.
Ho sempre, sempre, avuto paura che facendo una foto in certi momenti scomparissero poi dalla mia memoria. Come se, inconsciamente, sapendo che l’ho resa immortale allora viene automaticamente rimossa dal mio database naturale. Che bisogno c’è di occupare spazio, quando possiamo guardarla quando vogliamo?
Negli ultimi tempi invece ho scoperto tutto questo mondo e non ci sto dando tutto il peso che gli davo una volta. Forse perchè sono tutte piccole avventure effimere, momenti nel tempo che tornano e se ne vanno, belli nel loro complesso, simili e dissimili nella loro unicità. Piccole routine che si ripetono e costruiscono quello che è diventata la mia vita.
Passando il tempo mi sono accorto di aver avuto poche foto con chi conta nella mia vita. Ora, che ho accettato che ci potremmo perdere a vicenda e che questo fa parte di ciò che è il comune vivere, non ho più paura a creare dei piccoli frammenti delle giornate che passiamo insieme. Forse perchè non ci perderemo mai, perchè so che siamo abbastanza maturi per ricordare quei bei momenti per quello che erano, perchè non siamo così cretini dal farci del male per farci del male.
O, la ragione più semplice, perchè ci vogliamo davvero bene. E non si tratta di possedere una relazione, ma di essere una parte uguale di essa. Dove non esiste mio, tuo, ma semplicemente nostro. Dove una foto diventa un piacevole ricordo del ricordo della serata. Senza tante paranoie.
Per me è stato un grande passo. Non avere paura a far vedere la mia corporeità all’esterno, di cui ho passato anni a vergognarmi nel profondo. Non avere paura a dire al mondo “voglio bene a queste persone”, anche se potrebbe stare sul cazzo a qualcuno, anche se quelle persone potrei perderle nel futuro. Non aver remore a dire urbi et orbe “questa sera sono felice e guardando i Navigli sento la mia anima in pace con se stessa”.
Forse, all’inizio della scoperta di questo mondo, lo facevo più per andare in contrasto con l’idea che avevo io stesso e molti altri di chi ero prima. Ora, invece, posto. Così mi sento di fare e quindi lo faccio. Non vi è un motivo particolarmente nobile o una ragione elevata a giustificare questo comportamento che gli intellettualoidi da strapazzo devono denigrare.
Io, credo, che la nostra generazione si trovi di fronte ad un piccolo bivio morale. Vi sono contenuti che è meglio non condividere. Che senso ha lasciare qualcuno e poi declamare il proprio amore pubblicando canzoni strappalacrime? Quale è la ragione nel farsi un selfie con un parente morente? Dove diamine è il senso di pubblicare venticinquemila foto di rooftop parties o di vacanze in paesi del terzo mondo, quando solo il proprio cellulare potrebbe sfamare un villaggio intero? Che senso ha avere duemila amici su Facebook se poi non si interagisce con nessuno di essi?
Sono domande che meritano di essere poste e a cui, ritengo, ciascuno debba rispondere nel proprio intimo. Io, personalmente, ritengo che ogni atto che facciamo, oltre che affettivo, sia anche politico. Politico nel senso che va a creare un proprio modello che poi si ripete nel tempo. Una forma, un personaggio che è una parte di noi. Certo, non tutta la nostra entità ovviamente, ma è pur sempre una delle decine di immagini che decidiamo di dare. Quindi, quando si fa questo, bisogna decidere i criteri e le ragioni con cui farlo. E, ricordarci, che anche solo postando stiamo interagendo con delle persone. Se pubblico lo Snap di una persona a sua insaputa, come si può sentire? Può fargli piacere? Farlo stare male? Dargli fastidio?
Credo che, come qualunque azione che compiamo, basti usare un po’ di sale in zucca.
Ora, che non ho più paura a far capire l’affetto che provo alle persone, che ho ricondotto alla moltitudine del mio essere molte sfaccettature della mia personalità, che ho raggiunto un notevole livello di “esticazzi”, mi faccio molti meno problemi. E Fedez e J Ax possono venire a farmi la morale quanto vogliono, ma sono sicuro che quelli davvero vuoti sono loro, quando si guardano allo specchio e si rendono conto di quanto abbiano venduto se stessi per arrivare poi ad educare le masse.
Del resto, chi è pieno di giudizi, è incapace di guardarsi dentro. E, come sa chi mi conosce, questo l’ho imparato a mie spese.