Sono per lo più pensieri sconnessi che vado scrivendo in queste righe. Sono semplici immagini, fotografie del reale o dell’inconsistente mondo delle idee. Sono io, che mi nutro di istinto e poi subito dopo torno sui miei passi per condire l’istinto con un poco di ragione. Sono io, che scrivo per necessità e per egoismo, per raccontare e raccontarmi. E sono tante le volte in cui mi chiedo i perché della mia scrittura; che siano i perché della magica scintilla che fa cominciare il tutto, che siano quelli della pubblicazione, ovvero del rendere la cosa pubblica, privandola del suo privato.
Insomma, spesso mi chiedo: perché uno scrittore scrive? E perché io scrivo? Mi viene in mente Saba quando diceva che la scrittura è in qualche modo pur sempre una confessione, e dunque vuole l’assoluzione; e che l’artista è sostanzialmente inconsolabile davanti dall’insuccesso, poiché non gli basta saper quello che ha fatto, ha bisogno del pubblico, ha bisogno del successo. E «successo mancato equivale assoluzione negata», dice in una sua scorciatoia.
L’egocentrico Saba sembra con queste sue parole volermi consegnare la cartina del labirinto dei miei perché: anche io, infondo, scrivo per cercare l’assoluzione, scrivo andando in cerca di successo.
È domenica e sono al bar. Sto studiando con un’amica, piove fortissimo sulla strada ma sono concentrato sul mio libro, tant’è che me ne accorgo soltanto quando l’odore dell’asfalto bagnato mi arriva dritto al cervello. E allora alzo la testa, il mondo ha riacquistato la sua forma.
Al tavolo di fianco al nostro ci sono quattro persone, tutte anziane, che parlano del più e del meno. Portano vestiti da vecchi, bevono un bicchiere di vino bianco e sembrano voler avanzare gli ultimi due pezzi di pizza, al contrario di noi giovani che ce li litigheremmo avidamente. Hanno sul tavolo una rivista di gossip e fumano sigarette. Io li guardo e penso che potrebbero essere dei vecchi qualunque, che sono tutti uguali, come infondo lo siamo anche noi giovani (e soprattutto ai loro occhi, ma anche sempre di più ai nostri). Poi penso a quanta distanza c’è fra me e loro, a quante cose potrebbero raccontare e raccontarsi, mentre invece i loro discorsi vanno a parare sull’europeo, sulla Juventus, sul tempo e in particolare sull’analisi del frastuono dei tuoni che ci fanno trasalire ogni cinque minuti, mentre la pioggia ora si scaglia come saette con violenza sui cubetti di porfido e sull’erba già umidiccia.
Mi viene, come d’istinto, voglia di scrivere di questi vecchi, del loro fumo che mi arriva alle narici, dell’abbronzatura marrone di uno di loro, in parte occultata dalla sua Lacoste verde a maniche lunghe, dall’acconciatura della signora alla sua sinistra che mi ricorda quella di mia nonna, di un biondo pallido e sbiadito che tanto si accorda con la leggerezza dei suoi cappelli appena mossi, così fini che potrebbero scomparire all’improvviso.
La mia mente viaggia per associazione di emozioni. Il mio cervello è un recettore, i miei occhi i suoi complici. Quei vecchi sono spensierati, così penso che oggi, qui al bar, sono piuttosto spensierato anche io. È un momento che non voglio buttare via, voglio fermarlo nel tempo, renderlo immortale. Un momento di pura quotidianità che assume importanza solo ed esclusivamente per me.
La stessa cosa mi rendo conto d’aver fatto ieri sera, sopra al palco, mentre io e la mia band stavamo suonando l’ultima canzone. Mi sono fermato e ho guardato quelle persone sotto di noi cantare le nostre canzoni imparate a memoria, cantare qualcosa che ho scritto io con i miei compagni di viaggio.
Ecco la mia assoluzione, ecco qualcosa che mi fa sentire vivo e ripulito da ogni mio peccato marcato di egoismo. Ecco la vita vera.
E oggi, in questo bar, guardo quella che adesso posso dire essere un’amica, guardo i vecchi e i loro fumo di sigarette, guardo il foglio bianco che si riempie di parole. Poi ripenso al senso di vuoto che mi ha pervaso ieri, non appena sceso dal palco, non appena tornato alla mia quotidianità, che è fatta di momenti di spensieratezza, ma soprattutto di tantissimi momenti di malinconia. E come il collezionista di sabbia di Calvino (quel suo libro, Collezione di Sabbia, ha decisamente mutato la mia personale visione della vita), mi accorgo allora, come se avessi ricevuto in dono una rivelazione, che io scrivo anche per un altro motivo.
Scrivo per fissare l’impalpabile e inafferrabile presente. Per allestire una mia personalissima bacheca di momenti di vita, di quotidianità, di sensazioni che non esisterebbero se non fossero da me immobilizzate e imbalsamate, e poi resuscitate sotto forma di parole. E allora ecco che la mia quotidianità, che sia fatta di attimi spensierati o di attimi malinconici, diventa occasione per la mia scrittura, per la mia assoluzione, per ricordarmi ancora una volta quello che sono, che sono diventato, che non sono più.