Nothing Else Matters - TheCio

Nothing Else Matters

 

Every day for a something new
open mind for a different view
and nothing else matters.
Metallica, “Nothing else matters”

“Ventisei secondi e trenta centesimi.” Il tempo migliore della squadra, ma non era una novità. Il sorriso raggiante di Massimo, il mio allenatore, riuscì come al solito a farmi diventare le ginocchia molli. C’erano cose alle quali non mi sarei mai abituata. Il suo sorriso, così come il suo sguardo ammiccante e i suoi pettorali scolpiti, è una di quelle. Maria de Filippi avrebbe fatto carte false per averlo in trasmissione come tronista: sulla trentina, lunghi capelli mossi, occhi verdi, abile con le donne, stronzo quanto basta. Una volta mi aveva chiesto di uscire, ma la differenza d’età e il fatto che fosse il mio allenatore mi avevano trattenuta. Non se l’era presa: gli sguardi ammirati che gli rivolgevo continuamente erano sufficienti ad appagare il suo ineguagliabile narcisismo. Era chiaro a entrambi che non l’avevo veramente rifiutato.

Finiti gli allenamenti, mi abbandonai sotto il getto bollente della doccia, sperando di sciacquare via non solo l’odore del cloro, ma anche la stanchezza di due ore di allenamento. Ignorai gli sguardi di disapprovazione che mi lanciarono le altre ragazze quando mi spogliai completamente per lavarmi. Non avevo mai avuto pudori di quel genere, forse perché, grazie al costante allenamento fisico, non c’era mai stato nulla nel mio corpo che mi avesse provocato imbarazzo. Ero alta e ben proporzionata, pelle perfetta, capelli biondi e occhi azzurri. In effetti, la natura era stata generosa con me e, con il tempo, mi ero abituata alle battutine velenose e agli sguardi maligni che le altre ragazze mi lanciavano ovunque. D’altronde, non facevo proprio nulla per curare il mio aspetto: essere bella, come essere la migliore nuotatrice del mio corso, era un’altra di quelle cose che mi venivano spontanee.

Uscita dallo spogliatoio, mi sedetti sui gradini della piscina comunale ad aspettare mia madre, ma fui costretta a rientrare subito al chiuso. Pioveva. Non a caso dicono che Biella sia“l’orinatoio del Piemonte”. Qui da noi piove, ininterrottamente, per intere settimane. Piove anche quando esce il sole, perché la gente ritiene che non durerà, la città potrebbe tornare a piangere da un momento all’altro. La gente di Biella sembra aver sempre un buon motivo per piangere. Una volta si udivano pianti di nervosismo per le otto ore in fabbrica. Oggi, con la crisi del tessile, si odono solo pianti sommessi di chi ha perso il lavoro. Biella è una città invisibile, animata da spettri stanchi che, per uno strano pudore, soffocano i loro lamenti sul nascere. Biella è una serva disillusa, che per cinquant’anni ha servito diligentemente il suo paese e che ora si vede sostituita dalle lusinghe della manodopera a basso costo dei paesi dell’est. Il governo, che negli anni fiorenti dell’economia in crescita era stato un padrone generoso, si lascia ora tentare da nuovi lecchini. Biella era la mia città, era la mia amante piangente. Non l’avrei mai abbandonata.

Vidi il rosso della carrozzeria della nostra Ford Fiesta spezzare il grigio di quell’uggiosa serata di fine marzo. Mi sedetti in macchina di fianco a mia madre, lei mi domandò com’erano andati gli allenamenti.– Ventisei secondi e trenta centesimi. Il tempo migliore della squadra. – Sono contenta, vedrai che domenica li stenderai tutti – rispose. Lo diceva tanto per dire, mia madre non ha mai capito nulla di sport. Forse per quel motivo era sempre a dieta, nonostante tutti le ripetessero, a buon diritto, che era meravigliosa così. Era mio padre lo sportivo di famiglia; da giovane doveva essere stato piuttosto bravo, ma da qualche tempo gli impegni lavorativi gli permettevano di andare in palestra soltanto un paio di volte a settimana. Da mia madre avevo ereditato la bellezza fisica e il fascino che mi permetteva di arrivare un po’ più in là, dove anche le belle ragazze si arrendono. La passione per il nuoto e la capacità di riuscire bene in tutto quello che facevo, invece, le dovevo a mio padre.                                         

La gara a cui mia madre si riferiva si sarebbe svolta quella domenica a Roma. Era una gara importante, a cui partecipavano i più bravi nuotatori italiani ed io ero l’unica a rappresentare la mia squadra. Era indubbiamente una sfida ardua, ma Massimo non mi vedeva poi tanto male.

Mia madre quella sera non aveva voglia di cucinare, perciò cenammo a un chiosco ambulante. Sempre per la faccenda della dieta, lei ordinò un semplice sfilatino cotto e formaggio. Io un hot – dog con tanto di salse. Lei mi osservò con un pizzico d’invidia, io provai a immaginare la faccia che avrebbe fatto Massimo se mi avesse vista in quel momento.  Probabilmente nemmeno mi avrebbe portata a Roma. “Il corpo è un tempio, siamo ciò che mangiamo” era il suo motto; così, la maggior parte delle ragazze cretine del corso, pur di compiacerlo, passavano gli anni migliori della propria vita togliendosi i piaceri del cibo. Tutto inutile. Ero l’unica del gruppo alla quale Massimo avesse mai rivolto un briciolo di attenzione. Io, dal canto mio, mi guardavo bene dal nutrirmi con lo stesso mangime delle cocorite. Per fortuna, appartenevo a quella categoria di persone che non ingrassano mai. Addentai un morso gigante di wurstel e ketchup. Poco importava, Massimo non mi avrebbe mai vista. Arrivata a casa, ricontrollai, per mero scrupolo, la versione di greco prima di telefonare ad Alex.                         

Alex ed io stavamo insieme da poco più di un anno. C’eravamo conosciuti all’Hollywood, la discoteca milanese, in uno di quei rari sabati in cui non ero costretta al riposo pre-gara. Nonostante frequentasse il liceo scientifico della mia città, non l’avevo mai notato. Lo vidi soltanto quando Francesca, una delle mie compagne di corso, che gli stava dietro da una vita, me lo indicò. Era indubbiamente un bel tipo, di quelli che, quando passano per strada, ti giri a guardarli. Non so di preciso che cosa me lo fece desiderare di colpo così ardentemente; forse il semplice gusto di arrivare, ancora una volta, là dove le altre si fermano, forse la voglia di provare un’altra esperienza o forse, semplicemente, il fatto che fosse un bel ragazzo. Capii che doveva essere mio, ad ogni costo.  Proposi a Francesca di andare a parlare con lui, per vedere se era impegnato e, se non lo era, se era interessato a lei. Ricordo ancora le parole esatte che mi rivolse la prima volta: “La tua amica è molto carina, sai, però tu sei fatta su misura per me” Rifiutai: non potevo certo farmela con il tipo che piaceva alla mia amica, proprio davanti al suo naso! Tornai da lei, la consolai, purtroppo era stata rifiutata. Le chiesi chi fosse lui e come mai lo conoscesse. Mi raccontò che frequentavano entrambi la stessa scuola, ma in classi e sezioni diverse: lei 3°B, lui 4°C. Mi disse altre cose ma, onestamente, nemmeno la ascoltai. Il giorno seguente, mi recai alla sede centrale del liceo scientifico. Entrata nella scuola, mi rivolsi alla prima persona che trovai: “Mi scusi, signora, potrebbe portare questo foglio ad Alex di 4°C? Sono sua sorella…”. La gente fa le cose più volentieri se è convinta che tu sia un parente, non ho mai capito il perché. Su quel foglio c’erano il mio nome e il mio numero di telefono. La sera stessa mi chiamò. Tre giorni dopo stavamo insieme.

La telefonata di quella sera, come al solito, fu breve. Ci accordammo per vederci il giorno successivo alle quattro.

Arrivai a casa sua con dieci minuti di anticipo. Mi aprì la madre, alla quale non ero mai stata molto simpatica, ma che mi aveva sempre trattata con distaccata cortesia. Alex mi salutò appena, era impegnato a giocare con la playstation insieme ai suoi amici; di lì non si sarebbe staccato fino alle quattro. Ad Alex piaceva dettare regole e, anche se stupide o inutili, la gente doveva rispettarle rigorosamente. Quel giorno la regola era che ci saremmo dovuti vedere alle quattro, ma io non l’avevo rispettata, perciò era quello il trattamento che mi spettava. Sprofondai sul divano con una rivista, aspettando che lui e i suoi amici finissero il loro shoot ‘em up. Dieci minuti dopo, come stabilito, Alex spense la consolle e accompagnò i compagni al cancello. Rientrò. Mi tolse la rivista dalle mani. Mi baciò appena le labbra. Senza dire una parola, mi fece un cenno col capo e io lo seguii in camera da letto. Mezz’ora dopo ero fuori.

Inutile guardare il cellulare: Alex non mi avrebbe chiamata, né mi avrebbe mandato un messaggio di buona fortuna per la gara. Il nostro rapporto era così: niente “ti amo”, nessun messaggio sdolcinato. Solo brevi chiamate per contrattare altrettanti brevi incontri, al termine dei quali non avremmo avuto proprio nulla da dirci. Non nego che, in alcuni momenti, avrei preferito un legame più solido, meno shoot ‘em up. Quella, però, era l’unica soluzione che mi consentisse di impiegare tutte le energie nel nuoto e nella scuola senza perdere tempo in inutili smancerie e Alex, dal canto suo, poteva avere una ragazza, o almeno parte di essa, a sua completa disposizione impegnandosi pochissimo.                                                                                                                    

Tornata a casa, preparai la valigia, cenai velocemente e andai a letto presto, perché mi aspettava una lunga giornata.

Massimo mi avvertì della sua presenza con un colpo di clacson. Ignorai, come al solito, i commenti di mia madre riguardo alla maleducazione dei giovani d’oggi, presi il borsone e uscii. Mi avrebbe accompagnato Massimo a Roma, perché mio padre era via per lavoro e mia madre non se la sentiva di guidare così a lungo. Il viaggio fu abbastanza piacevole, eccezion fatta per la musica orrenda propinata per l’intero viaggio: un misto di Gigi d’Alessio, Anna Tatangelo e Laura Pausini. Chiacchierammo allegramente e senza pudori, Massimo si congratulò per i miei risultati scolastici, ingenuamente convinto che fossero frutto di una disciplina mentale appresa solo grazie al nuoto. Mi diede consigli per la gara, mi raccontò persino che stava per presentare Monica, la sua cosiddetta fidanzata, ai genitori. Non nego di aver provato un pizzico d’invidia, anche se l’avevo rifiutato, Massimo mi era sempre piaciuto. Lui lo sapeva benissimo e forse, nel raccontarmelo, ci godeva un po’. Tutto sommato, però, mi dispiaceva per Monica. Massimo era un cacciatore nato, non si sarebbe mai accontentato di una sola cerva, per quanto dolce e spaurita potesse essere, sapendo che in giro c’erano tante conigliette dispostissime a farsi prendere in trappola. In quelle lunghe ore di viaggio, non si lasciò scappare l’occasione di fornirmene un’ulteriore prova. La prese alla larga e prima mi chiese come andavano le cose fra me e Alex, poi cominciò a elencarmi i mille motivi per cui avrei dovuto preferire un consumato seduttore, come lui, a quel “bamboccio morto di seghe”. Mi astenni dal commentare chi, in quel preciso istante, avrebbe più degnamente meritato quel titolo.

Arrivammo in albergo verso le sei di sera. Lì alloggiava anche un gruppo di atleti di Bologna, ma quella sera non feci amicizia con nessuno. Un gruppo molto affiatato e gran parte di loro indossava pantaloni larghi, felpe oversize e magliette del Che. Erano parecchio rumorosi, la loro radio portatile ululava a tutto volume vecchie canzoni degli Iron Maiden. “Comunisti di merda” fu il lapidario commento di Massimo; per un leghista convinto come lui, rappresentavano ciò che in terra più si avvicina alla sua concezione di inferno. Una volta in camera, svuotai i bagagli. Una cena leggera a base d’insalatina mista e pane integrale, poi a dormire per le nove e mezzo. Il mattino dopo dovevo essere in piena forma. Una volta a letto, da una stanza vicina, il suono ruvido di chitarra elettrica di “Nothing else matters” dei Metallica pervase la mia stanza. Certo, come ninna nanna non era il massimo, ma era meglio delle schifezze che avevo ascoltato tutto il giorno.

Il mattino seguente, sveglia di buon’ora. Massimo mi obbligò a consumare una lauta colazione e, dopo i pasti scarsi degli ultimi giorni, mi riempì allo stesso tempo stomaco e cuore. La piscina comunale, distante poco più di un quarto d’ora dall’albergo, era stupenda. Dedicai un’oretta al riscaldamento, poi, verso le dieci, feci una piccola pausa.

“Ho dato un’occhiata agli altri” mi spiegò Massimo, frizionandomi delicatamente le spalle. Quel semplice tocco mi fece perdere conoscenza per alcuni minuti. “Sono tutti bravi, ma sono convinto che puoi batterli tranquillamente. Tieni soltanto d’occhio quella piccoletta là in fondo.”

Era una delle ragazze di Bologna che avevo visto la sera precedente. Aveva diciotto anni, ma ne dimostrava a mala pena sedici. Una così, per baciare il mio Alex, avrebbe avuto bisogno di una scaletta, anche se dubito che lui si sarebbe mai abbassato, in tutti i sensi, a baciare un cesso del genere. La possente muscolatura da nuotatrice le ingrossava moltissimo cosce e spalle. Il viso paffuto aveva ancora qualcosa d’infantile, enfatizzato dalla moltitudine di lentiggini che le ricoprivano completamente viso e collo. Una lunga criniera di riccioli crespi, color carota, le ricadevano sul viso, così decise di raccoglierli in una coda alta, accentuando ancora di più l’eccessiva rotondità del viso. Probabilmente era abbastanza spiritosa, perché le amiche che le stavano intorno ridevano di gusto. Paragonai quel gruppo di ragazze allegre e sorridenti al nostro stesso gruppo, nel quale “competizione” era la parola d’ordine. Non posso dire di aver mai fatto nulla per accattivarmi la simpatia delle altre, però vedere quella scenetta deliziosa mi provocò una punta d’invidia, specie quando un ragazzo, probabilmente il suo, le coprì le spalle con la giacca di una tuta. Cercai di immaginarmi Alex che faceva lo stesso con me, ma era un pensiero così lontano dalla realtà che lo cancellai subito: Alex era il tipo di ragazzo cha amava più togliere vestiti anziché metterli.

La gara si svolse alle 10.30. Ce la misi tutta, volevo che tutti quanti, Massimo, mia madre, mio padre e Alex, fossero fieri della mia vittoria. Non è vero che nello sport l’importante è partecipare. L’importante è vincere, perché i partecipanti, dopo poco, non li ricorda più nessuno. La vittoria, invece, rimarrà per sempre nel cuore di chi vince e di chi l’ha visto emergere  trionfante tra gli sconfitti. Volevo quell’oro a tutti i costi, dovevo farcela. Una ragazza perfetta non cade di fronte ad un nemico debole. Dieci minuti dopo, Massimo corse verso di me raggiante. Aveva corrotto una delle esaminatrici e aveva avuto in mano i risultati prima di tutti gli altri. Avevo vinto. Seconda la ragazza pel di carota.

A mezzogiorno si svolse la cerimonia di premiazione. La ragazza dai capelli rossi non sembrava dispiaciuta del suo argento, anzi, la vidi venire verso di me con un sorriso raggiante. “Congratulazioni” esclamò. Io ringraziai educatamente. “Non pensavo nemmeno di farcela, qui c’è gente veramente brava. Senti, vado con la squadra a mangiare una pizza per festeggiare: ti va di venire?”. Cercai solo di immaginare la faccia che avrebbe fatto Massimo se avesse sentito, ma in quel momento era troppo occupato a flirtare con l’esaminatrice per  fronteggiare la prospettiva di un esubero di carboidrati. Fui tentata di accettare, di unirmi a quel gruppo affiatato e solare, al quale non importava nulla di essere secondi. “No, grazie, devo partire subito dopo pranzo. Ho tempo solo per uno spuntino veloce” risposi. “Peccato” replicò la ragazza dai capelli rossi “Chissà, forse, un giorno, ci rincontreremo. A proposito, mi chiamo Valentina”. Mi abbracciò con cordialità, come se fossi una sua vecchia amica. Quell’abbraccio, però, per quanto inaspettato, non m’infastidì. Mentre aspettavo che Massimo finisse di corteggiare la bella esaminatrice, telefonai ad Alex. Aveva il cellulare spento. Non mi restò altro da fare che sedermi sui gradini della piscina. Sola.

“Andiamo?”. Un invito che suonava più come un ordine, come uno dei tanti che, in quegli anni, Massimo mi aveva dato e ai quali avevo sempre ubbidito, senza battere ciglio. Nell’uscire dalla piscina, rividi Valentina, circondata da amici e parenti in festa, onorata per un argento di cui non era nemmeno consapevole. “Ridicolo” commentò Massimo “quante scene per un misero secondo posto!”.                                                       

Io, come al solito, non risposi nulla. Era chiaro a tutti chi aveva vinto la gara. Quella gara.

Giulia Trentin

A cura di Ospite

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