Sconfitto. Per fortuna. - TheCio

Sconfitto. Per fortuna.

Come se fosse ieri. Ottobre Novembre 2015. I miei primi parziali in Bocconi. Ricordo ancora che arrivai a casa dopo aver dato l’ultimo dei tre. Ero a pezzi. Non quella sensazione di stanchezza piacevole dell’aver ottenuto qualcosa: piccoli pezzi di me.

Volevo chiamare a casa e fare il solenne annuncio, che tenevo con me, stretto, dalla prima sera che non riuscii a chiudere occhio in mezzo alla moquette verde. Stavo per dire a parole quel pensiero che mi balenava in mente da mesi: mollo.

Lascio stare.

Questa vita non fa per me. Il dare esami. Il costringermi a studiare, ad aprire pagine per poi andarle a ripetere e prendere un voto.

Il mio appartamento faceva schifo. Mangiavo una quantità immonda di cibo. Ingerivo merda per sentirmi pieno, quando ero un vuoto che camminava. Non vedevo un futuro per me in alcun modo. Sentivo di stare sprecando la mia vita, mi costringevo ad essere quello che io, non ero proprio.

Ma non riuscii ad ammetterlo: ero sconfitto. Avevo perso. Pensavo di essere un guerriero che combatteva una guerra e che era solamente un momento, che poi sarebbe passato.

Così non dissi niente e andai avanti. Altra sessione d’esami. Altre giornate passate a non combinare nulla, salvo poi trovarmi a preparare in fretta e furia esami i giorni prima per poter andare a fare il mio “dovere”. Nessuno aveva idea del mio essere sconfitto. Devo ammettere di essere stato un bravo attore. Scaricavo tutto su chi mi era più vicino, chiedendo agli altri lo stesso che chiedevo a me stesso, quando chi mi era vicino non aveva intenzione, giustamente, di buttarsi in un carnaio.

Avevo perso la guerra. La mia maschera era già andata distrutta. Tutto quello che ero e pensavo di essere non era all’altezza della sfida che avevo deciso io stesso di affrontare. Un atto di estrema arroganza, il pensare di poter continuare a pormi come mi ero sempre posto, portando al massimo i miei modi di operare.

Poi arriva Aprile 2015. Precisamente un anno fa. Una notte come questa, insonne, a guardare un cellulare cercando di trovare risposte che non arrivano.

Mi ostino, continuo a cercare di portare avanti una versione di me stesso che era morta e defunta. Un corpo vuoto che andava avanti per inerzia, spinto dalla pura forza di volontà di voler testimoniare agli altri che avrei tenuto i denti stretti fino all’ultimo, che non mi sarei piegato. Che non avrei cambiato nulla di me.

Fino ad un messaggio. Mi spinge a fare una piccola azione: a mettermi un paio di scarpe. E a correre. Anzi, pedalare. Quando le persone mi chiedono che cosa sto facendo e rispondo che sto pedalando, giustamente pensano mi sia messo ad andare in bicicletta. Non è così: semplicemente sto imparando a vivere.

Ho imparato tardissimo ad andare in bicicletta, ma una volta capito che se continui a pedalare non cadi mi si è aperto un mondo.

Il nove di settembre. Prendo una pala e scavo una buca, ci butto dentro chi sono sempre stato. Mi seppellsico. Ammetto una sconfitta esistenziale con quasi un anno di ritardo.

Ho passato due anni della mia vita a guardarmi allo specchio e a farmi fondamentalmente schifo. Ad accettare situazioni che non avevano nulla a che fare con me, solamente per paura del giudizio degli altri. Certe volte non basta un poco di zucchero per buttare giù la pillola amara della verità.

Mi pensavo arrivato. Credevo di essere sulla strada giusta, che quello che stavo facendo avesse un senso, che tutti i sacrifici che sostenevo avrebbero trovato una risposta. Invece no. Era tutto vuoto, inesistente. Boccheggiavo,  cercando di trovare aria quando intorno a me c’era solo acqua e stavo affogando in una pozza che mi ero scelto.

Una volta però che ho preso coscienza di questo, ho iniziato a piangere. Chi c’era si ricorda. Mesi a piangere. A sfogare anni di una battaglia combattuta fra me stesso, con me stesso in me stesso. Per raggiungere chissà cosa, per chissà chi. Se ne avessi parlato, se mi fossi aperto, forse sarebbe cambiato tutto. Il dato di realtà rimane: non l’ho fatto. Allora il mio mondo mi è crollato addosso.

Solo quando sei nelle macerie. Quando il dolore è nelle tue ossa, nei tuoi muscoli, nella tua mente. E sì, ho trovato anime che non mi hanno abbandonato, che mi hanno dato una mano a a spostare i massi e le travi del castello.

Sono stato fortunato, ancora una volta. C’è chi ha deciso di tornare nella mia vita, e per questo sono grato. C’è chi ha deciso di rimanere nella mia vita. C’è chi mi ha perdonato per un silenzio lungo anni, quando ad ogni domanda “come va?” rispondevo sempre “bene”. Quando bene non andava proprio per un cazzo.

Tutto questo, però era ieri.

Non oggi, non Aprile 2016. Ho smesso di mentirmi. Sono capace di dire a me stesso le cose come stanno. Faccio quello che voglio fare. Soffro. Ogni tanto piango ancora. Gioisco. Non che prima non l’abbia fatto. Non che prima non abbia amato. Ora però sono libero dalle catene, quando lo faccio riesco a chiudere occhio la notte senza sentirmi in colpa perchè parti di me stridevano con il tutto. Come le placche tettoniche, lascio che tutte queste mie placche scorrano, formino montagne e falle. Lo accetto, perchè sono io.

Cazzone. Grezzo. Guerriero. Imperfetto. Mai soddisfatto. Orgoglioso dei risultati raggiunti. Sentimentale. Nostalgico. Malinconico. E tutto il resto. Non arrivato, perchè non sono arrivato da nessuna parte. Mi ci trovo.

Non ho risposte, solo che ora le domande non mi piombano più addosso come un lento stillicidio. Non ho idea di dove sarò fra due giorni, figurarsi fra dieci anni. Se posso affermare di aver capito qualcosa, è che davvero si vive una volta sola. Che quando scrivo, parlo, penso a qualcuno è perchè a quel qualcuno in un qualche modo ci tengo.

Sono conscio che è solo una fase, un momento. Che un giorno mi sveglierò e cambierò di nuovo modo di essere. Che certe persone che sono ora nella mia vita domani non ci saranno più. Scrivere questo mi fa una paura fottuta. Ma è così. Spero solo che chiunque abbia mai avuto a che fare con me un giorno riesca a ricordarsi dei bei momenti passati insieme, non delle mie arrabbiature, dei miei limiti. Lo vorrei, ma di certo non mi comporto affinchè questo succeda.

Un giorno, magari, dirò queste stesse parole a chi nelle mia vita c’è stato e ora non c’è più. Forse.

Nessun altro può salvarci da noi stessi se non noi. Ammettere di aver sbagliato tutto costa, ma alla fine se ne esce meglio. Chiedere scusa è terribile, ma bisogna passarci per farsi perdonare o quantomeno avere chiarito il proprio essere. Alla fine non possiamo che essere quello che siamo.

E se questo vuol dire venir buttati in mezzo ai lupi, impareremo a conviverci. E se questo vuol dire venir lanciati nel fuoco, ci faremo la pellaccia. E se questo vuol dire avere paura, la affronteremo con un cuore che batte. E se questo vuol dire perdonare chi ci odia, lo faremo. E se questo vuol dire perdonare noi stessi, lo faremo.

Perchè la vita che viviamo alla fine, è nostra. Non degli altri. Non dei loro like. Non della loro approvazione.

Nostra.

Decio

A cura di decio

Ho studiato economia, alla ricerca della strada della mia vita. Nel frattempo scrivo, leggo, ascolto musica e gioco ai videogiochi.

2 Commenti

  1. Rispondi

    andreap

    Carino Decio !
    Se una sera ti capita di aver tempo libero,
    ho parecchia birra in frigo , un BBQ Sfrigolante e una tonnellata di B-movie!

    1. Rispondi

      decio

      Grazie boss 😀 appena sono un po’ tranquillo volentieri!

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