Sono le sei e zero sei e mi trovo su un treno diretto a Milano.
Sono questi i momenti in cui mi chiedo “ma ne vale la pena?”. Fare questa vita, in cui un giorno sei qui, un altro di là, vai, ti inserisci in ambienti in cui non ci pensi neanche più quanto pani o meno, ma semplicemente apri gli occhi e sei lì.
Certe serate ti si scrivono addosso come un tatuaggio. Le incidi nella tua memoria, con uno scalpello. Come Michelangelo di fronte al famoso blocco di marmo, le inizi e le modelli seguendo la forma che vuoi darle tu e quella che la serata stessa vuole che tu le dia.
Un insieme di emozioni e situazioni mi ballano per la testa. Instagram, dannato social. Come dannati lo sono pure tutti gli altri. Ieri sera, prima di uscire, ci ho piazzato la foto della mia maschera, per cercare di dare un senso a tutto il casino fatto per arrivare lì, a quel momento in cui la indossi e per qualche ora ti puoi permettere di fare battute sul non sprecare la carne.
Le feste in maschera mi hanno sempre trovato particolarmente interessato.
Mi piace vedere che cosa scelgono di essere, anche solo per un’altra notte, le persone che conosco nella vita di tutti i giorni. Queste ore di liberazione, in cui ci è concesso essere chi vogliamo, senza filtri o meglio ci regalano una buona scusa per esserlo. In questi anni, gli anni dell’apparire e dell’avere, non dell’essere e dell’esistere, in cui si è tutti un po’ pavoni, tutti un po’ coglioni. Io in primis. In occasioni come questa però è normale, e quindi posso finalmente mettere quella maschera che da molto tempo sognavo di indossare.
Hannibal Lecter, uno dei mostri del ventunesimo secolo. Hannibal The Cannibal. Una scelta naturale nel seguirsi di tutto quell’essere che è stata la mia vita da quando decisi di farmi il primo tatuaggio.
Arrivato a casa mi trovo davanti ai miei che ridono vedendomi uscire di casa travestito. Mi conoscono, sanno che anche in una azione senza un apparente valore come la scelta di un costume, io ci metto tutto me stesso. Di fronte alla libertà assoluta di presentarmi di fronte ad un sacco di persone che non conosco, decido coscientemente di prendere i panni di qualcuno che la vita la addenta.
La morde. Se la gusta. Anche se in modi, diciamo, poco socialmente accettabili. Mi trovo sorpreso di me stesso, a vedermi indossare una maschera che in realtà più che una maschera è una dichiarazione di intenti. Qualcosa che sento dentro, da quando ho ricominciato a camminare, quell’essere deciso e fermo nel godermi davvero questa età.
Vedo così un sottile filo rosso che collega tutte le mie scelte di questi mesi. Tre anni fa’ la combinazione di ansia sociale, senso del dovere e paura mi avrebbero spinto a chiudermi in casa e a non accettare mai un invito del genere.
“Chi, festa in maschera, io, ma poi vi pare, tornare da Milano apposta, ma voi siete tutti pazzi, ma poi come ci vado a Milano il giorno dopo? No, ma i giovani d’oggi, pensano solo a divertirsi, non pensano al CV, no ma poi chissà cosa pensano, io, che sono un bravo ragazzo, a fare queste cose, sia mai” e via andare. Di sicuro a quei tempi avevo più sale in zucca e le priorità più chiare. Non avevo questa spinta, però.
Ieri sera, mentre salivo per andare a questa festa e prima di venir salvato dall’arrivare completamente sudato da due amiche, ad ogni passo ero combattuto se accampare una scusa e tornarmene a casuccia. Certo, fra il fomento e l’aspettativa (dannata!) ormai avevo già investito troppo in quella serata.
Poi su c’erano Lore, Ema, Ste, qualcuno oltre alla padrona di casa lo conosco dai.
Arrivato lì, con le gambe un po’ tremanti e la voce che faceva sù e giù come quando sto per buttarmi in una impresa di cui l’esito è oscuro, ancora continuo a chiedermi se voglio fare questo passo. Se forse non è il caso di tornare a casuccia, andare a dormire e lasciar stare tutte queste dinamiche sociali. Penso alle figure di merda, a tutti gli scenari possibili ed immaginabili. Poi, dopo un attenta analisi durata circa sette secondi e mezzo, decido di sbattermene allegramente le palle.
Sarà stato che ero consapevole che se non fosse che mi ero buttato in questa esperienza del blog lì neanche penso ci sarei finito. Dubito che io avrei mai scambiato due con Lore, che avrei approfondito il mio rapporto con Ema ad un punto tale dall’averlo davanti a me che mi consiglia sul da farsi, sapendo quasi esattamente le stesse parole che mi stavano passando in testa, se non mi fossi aperto e continuassi ad aprirmi a me stesso e agli altri in questo piccolo spazio.
Per una serie di circostanze, persone conosciute, persone ritrovate e via dicendo, sentivo che stavo facendo un piccolo pezzo della mia storia, quella sera. Piccole parentesi verbali fra le tre menti dementi che animano queste pagine, discorsi con sconosciuti non più sconosciuti, sguardi biechi fra persone che a pelle non ci si sta simpatici poi chissà, birra, complimenti reciproci per i costumi, parole che dicono qualcosa e chissà cos’altro.
Sono le sette meno venti. Sono a Novara. Ho scritto a Ema e Lore di vedere di buttare giù qualcosa anche loro, se non fosse per sentirmi come un pirla a scrivere queste righe pensando che forse lo faranno anche loro. Spero che Ema sia tornato a casa con la testa di cavallo, che Lore non sia riuscito nei suoi propositi malvagi o gli spacco le ginocchia.
E poi me lo mangio.