Io e Luca ci guardiamo. Stiamo cantando la strofa di non so più quale pezzo. Sentiamo il vento alzarsi e passarci fra i capelli, poi una goccia cade sulla mia spalla.
Non tiene, viene giù tutto, pensiamo coralmente. Maledetta pioggia. Ma non abbiamo intenzione di dargliela vinta così, senza nemmeno provarci. Io e Luca ci giriamo. Gio e Mareo, dietro di noi, sembrano non voler rallentare. Ci guardiamo tutti e quattro, senza nemmeno avere il tempo di indovinare a cosa stiamo pensando, ma in fondo non è così difficile intuirlo. E così, alla fine, decidiamo di portare a casa l’ultimo pezzo. Lo facciamo sotto la pioggia, lo facciamo per noi stessi e per tutte quelle persone che sono lì con noi.
Poi la pioggia, che fino a quel momento aveva scherzato, comincia a fare sul serio. Pietro ci guarda, fa segno di spegnere tutto. Tagliamo lo special, diamo l’accordo di chiusura e smettiamo di suonare immediatamente, cercando di salvare il tutto dal diluvio imminente. Non c’è più musica nell’aria, si sentono solo voci spezzate dal rumore della pioggia che batte sui tetti e dai passi pesanti che scivolano sull’asfalto umidiccio.
Sto coprendo con un telo verde la batteria, mentre Gio mi passa a fianco con in mano un groviglio di cavi. Poi mi giro e guardo verso il locale. E in quel momento vedo un piccolo miracolo di solidarietà prendere vita: vedo persone con in mano i nostri amplificatori, chitarre, cavi, alimentatori. Scendono di corsa, mi passano a fianco, mi chiedono cosa devono fare, dove devono mettere quelle cose. Ed è lì mi rendo conto che quelle persone non sono venute soltanto per sentirci suonare o per fare un aperitivo la domenica sera, prima di tornarsene a Milano o Torino o chissà dove.
Mi rendo conto che quelle persone sono lì perché, in un qualche modo, ci vogliono bene. Fra quella gente che si sta sbattendo a trascinare amplificatori sotto la pioggia ci sono gli amici di una vita, ci sono conoscenze più recenti, ci sono quelli che ci seguono sempre, ci sono parenti, ci sono persone legate semplicemente alle nostre canzoni; persone di cui forse ci sfugge il nome, ma che hanno un volto riconoscibile, che dal palco riusciamo sempre a distinguere.
Non posso che sentirmi fortunato, ma fortunato per davvero. Perché mi rendo conto che qualcosa, magari di piccolo, magari di insignificante, ma che è comunque qualcosa, lo abbiamo fatto. La musica unisce, raccoglie, crea sempre qualcosa di inimmaginabile, anche in contesti come questi, anche quando si tratta di essere una ventina di persone che in venti minuti sbaraccano un intero set salvando tutta la strumentazione dal consueto diluvio estivo biellese.
Siamo dentro al locale, la strumentazione è ammassata in un angolo. Fumo una sigaretta sulla balconata. Mi guardo intorno, saluto un po’ di gente, vedo occhiali appannati e camicie fradice e mi viene da sorridere. È strano, vengo spesso all’Hemingway, ma questa sera si respira un’atmosfera insolita, diversa, che ha un non so che di familiare; c’è come una sorta di elettricità nell’aria. Decidiamo di prendere due acustiche e un tamburello e continuare a suonare senza nemmeno attaccarci all’impianto. Dobbiamo cantare forte, il pubblico ci dà una mano, la serata non finisce qui. Poi Luca dice “ehi, andiamo a farne ancora due fuori” e ci mettiamo sulla balconata a cantare le nostre canzoni, gli Stereophonics, i Beatles e anche altre cose che ora non ricordo più.
E qui vedo accadere il secondo piccolo miracolo della serata: il potere della musica non si è ancora esaurito, è ancora nell’aria, lo sentiamo penetrarci dentro, arrivarci allo stomaco, morderci il cuore. Non saprei come descrivere a parole quello che ho sentito in quel preciso momento, quindi mi limiterò a descrivere l’immagine che mi è rimasta impressa, quell’immagine che si è stampata dentro il mio cervello ed ora sta nella bacheca dei miei ricordi più belli: stiamo cantando Help, la stiamo cantando tutti, vedo i telefoni alzati, incrocio lo sguardo degli altri tre, poi dei nostri amici, poi di tutti quelli che sono ancora un po’ bagnati perché prima ci hanno dato una mano. In mezzo a quella gente c’è un pezzo della mia vita, ci sono i miei amici, c’è la mia ex, c’è chi ha lavorato con me, chi con me ha condiviso tantissimo, chi magari solo una serata, sicuramente ci sono persone con cui condividerò ancora tantissimo in futuro. Gli applausi mi fanno trasalire, ritorno in me, vedo le persone che sorridono, che ci chiedono di farne altre, di andare avanti. E allora non ci fermiamo più, non c’è più distinzione fra band e pubblico, siamo tutti la stessa cosa. Siamo una famiglia, una grande famiglia. E mi sento vivo, vivo per davvero.
Poco tempo fa, proprio su questo blog, me la prendevo con le discoteche, con le masse che si muovono all’interno di quella che Calvino chiamava un’affollata solitudine: gente sola con i pugni al cielo, la massificazione più totale, l’anonimato più sfrenato. Ogni tanto ci penso e mi rattristo, mi chiedo come possa una generazione ricca di potenziale essersi piegata così facilmente alle logiche dell’omologazione. Ma poi ci sono le serate come queste, che mi sbattono in faccia l’altra faccia della medaglia. Nessuno di noi, questa sera, si è sentito solo, anonimo, inutile. Eravamo tutti a cantare insieme sulla balconata dell’Hemingway, uniti dalla musica, dalla bellezza, dalla semplice voglia di divertirci. E ogni nota di Help che gridavamo al cielo era il nostro modo per dire: noi siamo ancora vivi, noi non siamo soli.