La giornata era stata piuttosto lunga. Dal mio appartamento Tokyo Bay appariva tutta illuminata. Guardo il telefono: un paio di messaggi su Telegram dal gruppo. Il fuso orario era di otto ore. Quindi si stavano accordando sulla serata. Era un venerdì.
Mi trovavo in quella città con quasi quaranta milioni di abitanti ormai da una settimana. Dopo anni di prove e riprove, curriculum, chiamate, Linkedin e tanta tanta pazienza ero finalmente riuscito ad arrivarci. L’anno era il 2019.
Non conoscevo ancora nessuno, così decisi di passare quel venerdì sera in giro per la città. Prima di uscire però un po’ di ginnastica a corpo libero. Negli anni ho imparato tanti modi per affinare il mio fisico. Tenevo sempre un po’ di grasso qua e là, casomai facesse un po’ freddo. Non mi è mai piaciuto il pensiero di avere un corpo scolpito, ma l’essere in forma aveva assunto una sua importanza.
Sentire tutti i muscoli, scaldarli. Tenderli. In mutande, davanti a quello spettacolo di luci. Una vecchia playlist suonava nel piccolo appartamento. Ero indeciso se mettere quella da palestra o da scrittura. Decisi per la seconda. La musica mi culla. Uso le stesse canzoni per scrivere, cucinare e fare corpo libero. Forse le uniche attività che mi permettono di staccare completamente dalle paranoie quotidiane, lasciandomi quell’ora di libertà. Mente e corpo diventano una cosa sola. L’ansia se ne va, le preoccupazioni nuotano nell’infinito mare del sudore e della fatica. I muscoli stendono la mia mente come una massaia con la pasta per fare una torta. Con mano forte e sapiente.
Quando, all’improvviso, dopo una serie particolarmente impegnativa di addominali, un messaggio.
Purtroppo ancora non avevo imparato a staccare dal mondo, così non avevo disattivato che le notifiche dai gruppi, quindi quelle dei singoli utenti erano ancora attive.
“Ehi come stai?”
Ho una pessima abitudine. Credevo, me ingenuo, che bastasse finire dall’altra parte del mondo per lasciarsi i problemi dietro. Avevo passato gli anni precedenti a mitizzare questa mia meta, a renderla la mia panacea. Ero talmente convinto che andarsene avrebbe risolto tutto che spesso e volentieri postponevo ragionamenti e discussioni che mi avrebbero potuto aiutare. L’estero, l’estero. Erano anni che vagavo senza un obbiettivo per il mondo, convinto che ogni nuova località mi avrebbe aiutato a capire chi ero.
Come fai a capire chi sei se passi il tempo a guardare di fuori, quando ti basterebbe parlare con l’uomo nello specchio? Con che arroganza puoi anche solo pensare di aver capito qualcosa se tre parole ti rovinano la serata?
Ehi.
Come.
Stai.
Tre proiettili.
Boom.
Boom.
Boom.
Ada. Tre lettere. Tre parole. Ci eravamo messi insieme l’ultimo mese di specialistica. Era tutto ciò che andavo cercando: bella, indipendente, avventurosa. Come tutte le altre, mi aveva trovato lei. Erano ormai anni che andava avanti questo tira e molla. Non passava mese senza che lei non dovesse far sentire la sua presenza in qualche modo.
Poteva essere un like su qualche social.
Una foto che compariva nella bacheca di qualche contatto comune su Facebook.
Un messaggio, a leggersi, innocente.
Doveva sempre far sentire la sua presenza, il suo ricordo, fin troppo vivo rispetto a quanto volessi ammettere. Ada, Ada. Ti ho detto che ti amavo, e sei scappata. Sei tornata, me lo hai detto, e sono scappato. Passavamo mesi idilliaci, non uscendo per giorni dall’appartamento di qualche parte assurda del mondo in cui ci incrociavamo, dandoci malati. Salvo poi insultarci per altrettanti. Erano tutti stufi. I miei amici mi avevano proibito categoricamente di parlare di lei. Le mie amiche ogni tanto si divertivano a saltare sulla piaga, alternando “come stavate bene insieme” a “non capisco neanche come faccia a lavorare con tutti quei tatuaggi”.
Ada. Tre lettere, tre parole.
Avrei voluto scriverle “come vuoi che stia, cretina!”. Questa volta mi aveva mollato lei, quindi nel duro valzer della nostra malata relazione, dovevo soffrire. Anche se, ormai, poco mi fregava. Solo che a star da solo non riuscivo.
Ho questa brutta abitudine: mi innamoro della relazione che mi trovo a vivere. Non della persona, ma dell’essere in una relazione. Mi autoconvinco che esser con qualcuno sia qualcosa per cui combattere, fino a che non perdo tutte le energie e mi trovo solo e disfatto. Con Ada questo era amplificato dalle nostre nature complementari in modo malato. Il copione si ripeteva. Ad libitum. Non avevo voluto aspettare. E dire che me l’avevano detto.
“Da uno a dieci anni.”
“Così tanto?”
“Così poco. Cresci. Vivi. Datti una mossa. Prova. Vai a concerti. Fai tardi. Laureati. Trovati un lavoro. Rendi la tua vita degna di essere raccontata davanti ad un buon bicchiere di vino.”
“E intanto?”
“Stai da solo. Conosciti. Per il resto, c’è la discoteca o la tua mano destra.”
“Cioè mi stai dicendo che prima di innamorarmi dopo tutto questo casino mi ci vorranno da uno a dieci anni?”
“Se sei fortunato sì.”
“COME SE SONO FORTUNATO?”
“La vita è così. Prima lo capisci, meglio starai tu e sopratutto noi che ti stiamo intorno.”
Invece no. Io avevo voluto Ada. Con tutto me stesso. Avevo assunto quell’aria da cucciolo lasciato al benzinaio dall’allegra famigliola italiana che non voleva rotture di balle al mare. E Ada mi aveva trovato e coccolato. Salvo poi riabbandonarmi in stazione. Venirmi a riprendere. E alternarci in questo gioco al massacro.
Sapevo che Ada si trovava in Corea del Sud.
Che era fottutamente troppo vicina.
Presi una decisione.
“Ada. Smettiamola.”
“Cosa?”
“Questo.”
Vi risparmio le conversazioni. Un alternarsi di insulti, ricordi, momenti di incredulità. Finta sorpresa, dolore vero. Un alternarsi di agro e dolce, come la nostra storia. Ada era tutto ciò che pensavo di cercare in una donna, tutto ciò che ritenevo fosse quello che mi serviva. Quanto poco sapevo allora. La saggezza viene con il tempo e con gli errori. Cosa ce ne facciamo di consigli che non possiamo capire? Gli adulti sono tanto bravi a propinarceli, neanche loro alla mia età si sarebbero ascoltati.
Andiamo avanti per qualche ora. Oramai il mio corpo era freddo. Gelato.
Ada. Ci saremmo mancati. No, neanche tanto poi. Ci saremmo poi rivisti in cima ad un grattacielo a New York, una decina di anni dopo. Facendo fatica a riconoscerci a vicenda. Un sorriso. Non più una ragazza ed un ragazzo, ma una donna ed un uomo. Dopo aver presentato i rispettivi partner, parlammo per ore raccontandoci la vita e di come quella mia (che poi era nostra) decisione ci salvò la vita.
Quanto ero piccolo, un bambino con la camicia e la barba. Uscii dal mio appartamento sulla baia di Tokyo per camminare. Deciso finalmente a imparare a navigare in questo mare da solo. Per poi navigare insieme a qualcuno, due barche diverse che procedono verso la stessa direzione. Senza urtarsi. Il tempo e gli errori me lo avrebbero insegnato, ma è un racconto per un altro momento.
Decio