L'attesa - TheCio

L’attesa

Un vecchio sedeva con lo sguardo fisso rivolto verso il lento ticchettare di un orologio, lunghi capelli grigi gli ricadevano spettinati sulle spalle e una folta barba gli incorniciava il viso scarno, segnato da rughe profonde. Gli occhi non vagavano, non si staccavano mai dal quadrante dove le lancette scandivano il tempo; e così come i suoi occhi non si muovevano, così l’uomo non s’alzava dalla sedia, ma rimaneva in attesa. Le mani nodose appoggiate alla coscia, aperte, come a tener ferme le gambe, ad impedir loro di muoversi e sopportare pazientemente la venuta di qualcosa d’importante. Nessuno l’aveva mai visto alzarsi, né passeggiare, né far alcunché al di fuori di aspettare, seduto sulla sua sedia, con lo sguardo rivolto all’orologio. C’era chi affermava che stesse seduto in quel medesimo luogo da più di quarant’anni, forse anche più, quando ancora quell’orologio non c’era e neppure il muro su cui era stato appeso; lo sguardo – viene allora spontaneo farsi questa domanda – era davvero rivolto all’orologio, o a qualcosa ben oltre che ormai era stato coperto alla vista?

Qualcuno addirittura diceva che quel vecchio fosse fermo su quella seggiola dall’inizio dei tempi, prima che il paese fosse fondato e le città costruite; semplicemente sedeva lì da un centinaio d’anni – chissà magari anche duecento, o mille. – immutato, come se non si fosse accorto dello scorrere degli anni e questa sua sbadataggine gli avesse permesso di vivere in uno stato temporale a sé. O forse era già morto e non se ne rendeva conto continuando quindi imperterrito ad aspettare. Altri ancora lo consideravano una statua o un nume tutelare, un segno di un tempo passato che vegliava su di loro. Qualunque fosse la verità, tante erano le storie che giravano che non c’era bambino che non conoscesse “l’uomo-in-attesa”, né adulto o anziano che non lo ricordasse nei propri ricordi d’infanzia, seduto su quella stessa sedia traballante.

Eppure, per quanto la sua figura fosse costante fonte d’interesse per la comunità, non v’era un solo abitante che conoscesse il nome di quel vecchio. Non uno che avesse mai osato rivolgergli la parola nel timore di rompere quell’incanto che lo avvolgeva. Li attirava e terrorizzava al tempo stesso, quasi si trattasse di un tabù. E proprio come tale, tante erano le attività del paese che si avvicendavano attorno all’anziano: i bambini si sfidavano a vicenda a chi fosse riuscito ad avvicinarsi il più possibile e distrarre l’uomo, urlando un nome qualsiasi o architettando qualche scherzo. Un gioco, sì, ma anche un rito di passaggio che ogni ragazzo affrontava con tutti gli occhi puntati addosso, perché i grandi partecipavano a questo divertimento da lontano, rimbrottando di tanto in tanto ai bambini di non disturbare, ma con in cuore un malcelato desiderio. A loro volta gli adulti avevano ingaggiato un gioco dalle dinamiche simili, quasi una spontanea evoluzione dei giochi di gioventù; era questo una specie di lotteria in cui ogni giorno era un gran pensare e un gran scommettere su quale potesse essere il nome di quell’uomo. Si dicevano che sicuramente l’avrebbero scoperto presto, ma la verità era che nessuno aveva quest’intenzione; era un gioco a loro unico uso e consumo e quanti nomi strani che uscivano! “Costante”, “Ulisse”, “Fermo”, “Placido” e così via in una moltitudine di nomi, ora di personaggi epici, ora di filosofi e santoni, ora di evidenti riferimenti alle particolarità del vecchio. Molte volte non si era neanche così sicuri da dove saltassero fuori certi nomi, nati probabilmente dai ragionamenti di una giornata tediosa, ma poco importava ogni nome era ben accetto ed i migliori sarebbero poi diventati il Nome della giornata. Ed era così, nel vortice di una febbre da battesimo, che quel vecchio senza un nome se ne ritrovava cento, nessuno il suo.

Era un quindici di agosto e il caldo torrido imperversava per le strade del paese, scontrandosi con le finestre chiuse e insinuandosi nei pertugi all’ombra. La lotteria di quel giorno, condotta in fretta e furia alle luci del mattino per cercare di scappare all’afa opprimente, aveva designato “Amaranto” come nome del giorno – probabilmente frutto di una notte d’insonnia.

A poca distanza dal vecchio Amaranto, all’ombra di un ulivo frondoso, una bambina osservava l’uomo con apprensione; gli altri bambini, dal più grande al più piccolo, erano appostati in disparte, pronti a non lasciarsi sfuggire neanche il minimo dettaglio della prova che da lì a pochi minuti si sarebbe svolta. Nella canicola estiva non c’era un filo di vento e l’attesa alleggiava tutt’attorno insieme al caldo opprimente; il sudore le inumidiva le mani serrate a pugno, la canotta leggera aderiva alla pelle fastidiosamente e il cuore le guizzava forte nel petto, scandendo il passare del tempo come le lancette di un orologio. Tutto ciò che doveva fare era correre nella sua direzione, pochi passi di falcata decisa, e urlare un nome qualunque, anche Amaranto, e la sfida sarebbe stata portata a termine; nonostante l’apparente semplicità di quel gioco, gli occhi puntati sulla sua schiena le bloccavano i muscoli.

Aveva l’impressione che il vecchio, per quanto non le stesse minimamente prestando attenzione, fosse consapevole della sua presenza. Sapeva che lei era lì, non si spiegava come ne fosse certa, ma non aveva dubbi a riguardo. Quest’improvvisa consapevolezza, l’essersi accorta di quella serafica indifferenza, le fece dimenticare gli sguardi attenti dei suoi compagni e la tensione si sciolse; non corse, invece, misurò con lentezza i passi e, arrivata accanto alla sedia dell’uomo, lo toccò leggermente. Per quelli che le sembrarono dei minuti, non accadde nulla, l’aria era ferma e rarefatta; poi Amaranto voltò leggermente il viso e tirò le labbra in un sorriso leggero, quasi impercettibile. Si rese conto di aver trattenuto il fiato fino a quel momento, fece un respiro e in tono timido chiese a quell’uomo ciò che nessuno fino ad allora si era preso la premura di fare.

Il vecchio socchiuse gli occhi, come ad abituare la vista all’immagine della bimba, così diversa da quell’orologio che aveva fissato così lungamente, e con il volto disteso in un sorriso rispose:

“L’ho dimenticato.” e cominciò a sgretolarsi, come le dune di sabbia fine nel deserto al soffio del vento. Un tocco di lancetta e di quella figura sempiterna non era rimasto nulla, neppure il nome.

A cura di Federica

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