#6 di Fiaba Moderna.
Si sedeva sul pavimento. Incrociava le gambe. Con le mani, piegava le punte. “Dovete ascoltare quello che le estremità hanno da dirvi. La danza parte da lì.” Un consiglio arrivato quando era ancora bambina, durante uno stage con la prima ballerina di Notre Dame de Paris. Si chiamava Nadia, come lei. Non le piaceva che due persone avessero lo stesso nome. “Tu sei la mia Nadia. Lei è la Nadia dei suoi genitori” le aveva spiegato mamma. Nadia si era tranquillizzata e lo stage le era piaciuto moltissimo. Mamma sapeva sempre come fare. Lo stereo suonava Giochi proibiti, in loop. Nadia stava sciogliendo i muscoli del collo e delle spalle. Un ricordo stava per arrivare e lei l’avrebbe lasciato entrare. Non faceva male. Non con quella musica nelle orecchie. Nelle viscere. Nell’anima. Nei piedi.
Aveva cinque anni. Era domenica mattina. Nessuno l’avrebbe strappata al tepore delle sue coperte per portarla a scuola. Suo padre stava suonando il pianoforte, ma, a svegliarla, era stato il profumo di marmellata e buccia di limone. Crostata alle more. La mamma cucinava sempre, di domenica mattina. Si era alzata, pregustando pasta frolla e zucchero a velo. Era scesa al piano di sotto. Aveva trovato mamma seduta sul davanzale della finestra che dava sul giardino. Quella dove si sedeva sempre per dipingere. Aveva una bandana e una camicia a quadretti bianchi e rossi. Aveva il vizio di pulirsi le mani sui vestiti e aveva ancora un po’ di farina sui pantaloni della tuta. Sulla tela aveva abbozzato un paesaggio e, sulla tavolozza, c’erano tutti i colori dell’autunno. La Musa Nera, quella mattina, non le aveva fatto visita.
Nadia si immaginava la Musa Nera come una pantera dagli enormi occhi gialli. Come Baghera, de Il Libro della Giungla. Anche mamma, quando la Musa Nera la andava a trovare, diventava un animale selvatico. Poteva durare giorni, a volte settimane. Passava ore a dipingere. Mangiava a stento, andava a dormire tardi e si svegliava di pomeriggio. Non si preparava i colori sulla tavolozza. Li usava puri, direttamente sulla tela, nell’ordine in cui le venivano in mente. Quando aveva finito, mostrava al pubblico la sua opera. Lei e papà erano i primi. Tutti la riempivano di complimenti. Gli amici le chiedevano dove trovasse l’ispirazione, i galleristi la includevano fra gli artisti più promettenti del decennio.
A Nadia non piacevano i dipinti ispirati dalla Musa Nera. Per fortuna, non rimanevano in casa per molto. C’era sempre qualche riccone disposto a sborsare un sacco di soldi per prenderseli. Nadia adorava guardare mamma dipingere ritratti, nature morte o paesaggi. Proprio come stava facendo quella mattina. Nadia aveva sceso le scale facendo pianissimo. Voleva osservarla al lavoro senza essere vista, ma mamma si era accorta di lei. Aveva appoggiato il piede scalzo sul penultimo scalino, quello che scricchiolava. Le pieghe agli angoli degli occhi di mamma si erano increspate. Era bellissima quando sorrideva.
- Buongiorno Nadia! Già in piedi?
- Ho sentito il profumo di crostata.
- Devi aspettare ancora qualche minuto. Ora scotta. Vieni qua con me.
Si era accoccolata al petto di mamma. La sua camicia aveva trattenuto l’odore della cucina.
Madre e figlia erano rimaste abbracciate per qualche minuto. Le setole del pennello accarezzavano la tela bianca sotto la guida di dita agili e affusolate. Due piani le separavano dall’origine della musica.
- Posso andare da papà?
- Certo, tesoro.
Nadia aveva risalito i due piani di scale che la separavano dalla mansarda. Papà aveva tenuto la porta dello studio aperta. Con lui, era riuscita in quello che, poco prima, con mamma, aveva fallito. Papà aveva passato qualche minuto a pigiare i tasti del suo Steinway&Sons. Aveva una ruga al centro della fronte. Gli veniva sempre, quando era concentrato. I suoi occhi erano rimasti seri finché non avevano incrociato quelli di Nadia. Aveva sorriso. Proprio come mamma.
- Nadia! Che fai lì sulla porta? Vieni dentro.
- Sicuro che non ti disturbo?
- La mia Principessa non disturba mai.
Papà aveva smesso di suonare e le aveva teso le braccia per farla sedere sulle sue ginocchia. Nadia aveva iniziato a schiacciare distrattamente i tasti dello strumento. Papà le aveva chiesto se volesse imparare a suonare, ma Nadia non aveva ancora deciso se il pianoforte le piacesse o no.
- Che canzone era quella che stavi suonando?
- Giochi proibiti.
- Che cosa vuol dire “proibiti”?
- Che non si possono fare.
- Come quando tu e mamma mi mettete in castigo?
- Più o meno.
- Perché “più o meno”?
- Te lo spiego quando diventi grande.
Aveva quindici anni. Era sabato sera. Nessun ragazzo l’aveva mai guardata. Non in quel modo. Era tutta la sera che lui provava a ballarle vicino, ma lei era di spalle e non se ne era accorta. Nadia non si accorgeva mai di niente. Era rimasta girata anche quando lui le aveva appoggiato le mani sui fianchi e aveva continuato a dimenarsi al ritmo della tunz-tunz. Lui era un ballerino imbranato e lei era imbranata con i ragazzi. Erano pari. Danijay stornellava di corpi, musica e rumore. Lei non trovava il coraggio di voltarsi verso il ragazzo che l’aveva guardata per tutta la sera.
- Sei carina.
- Grazie.
Le aveva preso le mani, l’aveva fatta girare. Le ballava vicinissimo. Una ragazza più grande, o solo più sveglia, si sarebbe accorta che i pantaloni gli tiravano sul cavallo.
- Se ti sto troppo appiccicato, dimmelo.
- No, va bene.
Il ragazzo continuava ad accarezzarle la schiena e i fianchi. Aveva il naso troppo lungo e gli occhi troppo sporgenti, ma Nadia era pronta a giurare, a chiunque glielo avesse chiesto, che stava ballando con il ragazzo più bello del mondo. La camicia azzurra, con i primi due bottoni aperti, era un invito ad appoggiare le labbra sull’incavo della spalla. Il suo profumo le dava un leggero senso di vertigine.
Nadia continuava a ballare. Non sapeva fare altro, nella vita. Teneva la testa bassa perché intuiva, proprio lei che non intuiva mai niente, che cosa sarebbe successo, se i loro occhi si fossero incrociati. Il suo primo bacio non poteva essere con un ragazzo di cui ignorava il nome. Lo dicevano le ragazze della scuola di danza. Ma Nadia non aveva trovato una regola che lo vietasse.
“Adesso è tempo, è tempo di sognare. Questo è un gioco non convenzionale. Ti senti pronto, possiamo cominciare? Inizia il Gioco, il Gioco dell’Amore.”
Il ragazzo le aveva pizzicato il mento fra pollice e indice. Le aveva sollevato il viso, con delicatezza. I loro occhi si erano incrociati. La bocca del ragazzo sapeva di fragola. Quella di Nadia di coca-cola.
- Sai di buono – le aveva detto.
Nadia aveva sorriso, incapace di proferire verbo. Il cuore le avrebbe perforato una costola, se non avesse smesso di battere così.
Dopo il primo bacio, erano arrivati anche il secondo e il terzo. Nadia aveva preso il ritmo e il ragazzo era disponibile a farle fare pratica. Avevano abbandonato la pista da ballo e si erano appartati su un divano. Si era seduta in braccio e lui la stava toccando sotto il vestito.
- Che ore sono?
- Mezzanotte meno dieci.
- Devo andare.
- Ti accompagno.
Aveva fatto la coda con lei al guardaroba. Nadia aveva ritirato giacca e borsa e si stava dirigendo verso l’uscita.
- Aspetta, voglio il tuo numero.
Nadia gliel’aveva dato.
- Non ti segni il mio?
- Lo memorizzo quando mi scrivi.
Una frase che suonava arrogante. Per Nadia non aveva altro significato che quello letterale.
Il ragazzo le aveva scritto quella notte stessa. Si chiamava Luca, frequentava il liceo scientifico e amava le arti marziali. “Mi piaci. Hai un bel corpo, non sai che ti farei. Spero di rivederti la prossima settimana.”
Un’ondata di calore l’aveva bagnata dalla testa ai piedi. Nadia, con la mano, aveva ripercorso tutti i punti in cui Luca l’aveva toccata. Un formicolio in mezzo alle gambe. Sotto le coperte, sensazioni senza nome.
Aveva ventitré anni. Era sabato mattina. Aveva terminato l’allenamento, per quel giorno. Luca era andato via. Si era domandata, pigramente, perché non le avesse chiesto il numero di telefono. L’altro Luca lo aveva fatto, otto anni prima. Questa cosa dello stesso nome per due persone diverse continuava a metterla a disagio. Forse, non tutti i Luca, dopo averti baciata, ti chiedono il numero.
Sul tavolo della cucina, erano rimaste una moka mezza vuota, una tazzina con dentro un mozzicone e la tazza grande dalla quale Luca aveva bevuto la tisana. Avevano fatto l’amore, su quel tavolo.
“Non puoi scoparti uno conosciuto la sera stessa”. Sempre le ragazze della scuola di danza. Anche in quel caso, non aveva trovato nessuna regola che lo vietasse.
L’avevano fatto anche sul tappeto dove adesso stava facendo stretching. I papaveri di Monet, che mamma aveva riprodotto per lei quando era piccola, ora appesi sopra il divano, erano testimoni di tutti i giochi proibiti di quella notte. Luca era stato impetuoso. Le aveva lasciato piccoli segni blu su collo, glutei e sotto il seno. Per una settimana, Nadia si sarebbe truccata più del solito e si sarebbe spogliata con cautela, davanti alle altre ballerine. Avrebbe ripensato a lui, tutte le volte in cui li avrebbe guardati. Luca diverso. Stesso formicolio. Stesse emozioni, la sera, da sola, sotto le lenzuola.
Proibiti sono i giochi di chi non ha il coraggio di provare.
#1: Luca e Nadia.
#2: La mattina dopo.
#3: Vera.
#4: Vanessa.
#5: Canapa.