Facevo terza media quando affrontammo la prima rivoluzione industriale, penso. Iniziammo a parlare delle conseguenze politiche, come il comunismo e più defilato, l’anarchismo. Lessi qualche stralcio contenuto nei libri da Proudhon e da buon figlio cresciuto in una famiglia benestante iniziai a simpatizzare per quel teorico che definiva la proprietà un furto.
Sarebbe interessante analizzare la mia parabola da ribelle adolescente a bocconiano alternativo, ma credo sarebbe scontata e soprattutto faccia parte dell’immaginario collettivo e non vorrei mai che si possa pensare che la situazione è sempre stata un po’ più complessa di quanto appare.
Quando mi si è palesata l’opportunità di passare due giorni via, ho scelto per me e la mia amica Bologna. Chi viene da quelle parti mi ha sempre colpito per una certa accortezza nel capire il mondo, una visione più omnicomprensiva del tutto. Persone che quando dicono “restiamo umani” te lo fanno davvero sentire.
In un giorno e mezzo non penso di poter neanche avvicinarmi ad avere capito una città, per Milano ci ho messo un anno e mezzo. Ma l’impressione che Bologna ha lasciato dentro di me è quella di una città fuori dal suo tempo ma al contempo molto più attuale e cosmopolita di tante altre città. Ovviamente, visto il mio vissuto, il paragone è istantaneo. Tanti punti di similarità, a prima vista: dove a Milano il diverso viene trattato come viene trattato il normale, cioè non viene calcolato, a Bologna il diverso non esiste. Tutto viene ricondotto all’insieme di appartenenza, che è il genere umano: coppie omosessuali che camminano tranquillamente per mano, non noncuranti degli sguardi, ma proprio gli “sguardi” stessi che siamo soliti pensare neanche esistono.
Arrivi in Piazza Grande. Cinema in piazza. Per fare cultura. Una piazza intera piena, un film di Dino Risi. In Nome del Popolo Italiano. Temi quanto mai attuali. E qui, scatta subito l’invidia e la competizione: quando passi anni della tua vita a provare a riempire piazze e ti devi sottomettere a dinamiche “commerciali” e vedi una piazza riempita con la cultura, la sensazione non è piacevole. Mi chiedo se è il terreno, diverso. Se gli anni di cultura derivino dal fatto che Bologna è una città, fondamentalmente, di sinistra. Se la cultura, per come la intendo io, forse in questo paese di debosciati è solo ad appannaggio di un certo modo di intendere la vita della città. O forse sono le teste, o forse altre centomila caratteristiche. Sta di fatto che qui, ci riescono. Invece, da altre parti, no.
Bologna è tutto e non è un paesotto. Non è una Torino, dove alla fine ci si conosce tutti. Non è una Milano, dove nessuno conosce nessun altro ma quello che conta è pedalare. Bologna ti saluta con ciao e con un sorriso, chiunque tu sia e da qualunque posto tu venga. Il bar della Piazza Maggiore, che ti fa pagare un bicchiere d’acqua (ghiaccio, limone) cinquanta centesimi, quando mi aspettavo già di dover sborsare un euro. Piccole cose, per carità, che ti fanno capire la differenza del modo di intendere il proprio mestiere: prima la persona che hai davanti, poi il profitto. Anche se è un turista, anche se non è mai detto che tornerà.
A Bologna, però, non ci vivrei. Bologna è troppo bella per viverci, troppo buona. Bologna mi ricorda che un altro mondo è possibile, e questo stride troppo con tutto quello che sono ora.
L’ultima cosa che mi ha lasciato un grande marchio dentro sono le Chiese. Ma di questo parlerò poi, visto che fa parte di un tema molto più grande ed ampio.