Musica.
Ho sempre passato molto tempo in viaggio. Macchina, treno. Penso che non lo sappiano, ma le figure importanti nella mia vita sono sempre state legate a dei gruppi e a delle canzoni. Depeche Mode, Jarabe de Palo, Eminem, The Clash, Nomadi, Jovanotti, Napalm Death, Green Day, Eminem, Slipknot e via dicendo. La mia preadolescenza ed adolescenza è stata passata ascoltando questi gruppi ed altri. Alcuni scelti da me, altri invece ascoltati durante le ore in cui la mia mente vagava fra amicizie, rapporti familiari, primi amori e preoccupazioni.
La mia educazione sentimentale è passata attraverso centinaia di ore di musica ascoltata. Quando non hai la forza di volontà di imparare a suonare uno strumento o il coraggio di fare una band senza saperlo fare, non ti rimane che limitarti all’ascolto.
Uno dei gruppi più importanti nella mia crescita sono stati i Daft Punk. Un pomeriggio liceale ero malato e mi trovai davanti a Interstellar 5555. Un film a cartone animato che si svolgeva secondo le track dei due DJ francesi. Volontariamente o meno ho immagazzinato dentro di me due concetti di quel film: l’amore e il rendersi più duri, migliori, più veloci, più forti. Credo che in un modo o nell’altro questo sia qualcosa che è sempre stato parte di me. La volontà di andare oltre al limite di ieri, cercando sempre di alzare l’asticella. Provandoci. Sbattendoci il muso contro.
Non credo di averlo mai guardato assieme a qualcuno. Ho il ricordo di mia sorella Cecilia che mi fa compagnia durante la mia terza visione di questo film. Quando qualcosa mi piace ho il brutto vizio di continuare a farla. Ad libitum. Forse era la febbre, forse ormai i ricordi di quel periodo si stanno sedimentando. Non ne sono sicuro.
Ciò che invece è certo è che per me la musica è uno dei modi per venire fuori da momenti brutti. Ed è uno dei modi per darmi una spinta. Per aiutarmi a fare il salto di qualità giornaliero. Per darmi una mano quando sbatto la testa per terra riprovando per la decima volta ad arrivare a quell’appiglio.
In questo periodo dell’anno scorso ho iniziato ad ascoltare musica italiana. L’ho sempre abbastanza aborrita, a parte qualche gruppo o cantante. Poca roba. Mi sono lanciato in questo nuovo strano mondo e ne ho capito il senso stasera. Certo, i concerti finiscono e domani alle nove sarò in ufficio, gli esami sono ancora da dare. La tesi ancora da scrivere.
A forza di ascoltare musica diventerò sordo. Andando a concerti mi verrà male alle ossa e rimarrò fermo nel letto a guardare un punto nel muro bianco dell’appartamento in cui vivo, in un silenzio inframmezzato da urla, macchine e porte che sbattono. Potrebbe essere.
Ma la musica aiuta a resistere ai calci nei coglioni che ogni tanto la vita ci tira.
Fanno fottutamente male.
Qualche nota, qualche urlo, qualche lacrima però ti permettono di riportare tutto a quel vissuto condiviso da tutti noi. La musica unisce e separa. Può essere elemento di unione per menti in grado di discutere, elemento di separazione per menti più limitate delle altre.
Trovo veramente difficile rendere a parole quello che la musica, in molte delle sue varianti, significa per me. Ricordo come se fosse ieri quando alla domanda “ma ti piace andare in discoteca?” risposi che trovavo tutto quello un rimasuglio del nostro essere bestie primitive che si dimenano a suoni di tamburi. Solo che ora sono elettrici. Che poi abbia passato da settembre a gennaio a vagare per locali e discoteche è diretta conseguenza di questo: la ricerca di appartenenza ad una tribù di giovani. Momento di fondamentale importanza per me quando capii che sì, ok, è divertente ma fino ad un certo punto.
Quello che più mi piace della musica è che tutto fa parte di me. Lati diversi miei che si uniscono in una libreria di Spotify che uno psicoterapeuta giudicherebbe appartenere come minimo ad uno schizoide. O semplicemente ad uno che ha abbracciato l’essere moltitudine. Come ho fatto io, in questi mesi.
Domani, come oggi e ieri, mi alzerò e canterò. Ballerò al mio ritmo. Camminerò nel mio modo. Particolare, un po’ ridicolo.
Ma mio.